Non sono poche le iniziative, meritevoli, che ci aiutano a riflettere su quanta acqua venga sprecata per produrre i nostri beni di consumo; la carne (candidata a diventare paria dell'alimentazione contemporanea) ma anche per esempio una t-shirt di quelle basic, prodotte da pressoché tutti i marchi low cost che riempiono in gradi diversi gli armadi di tanti di noi.
L'acqua è un bene preziosissimo e non va sprecata, su questo dobbiamo essere tutti d'accordo.
Ma nel processo di produzione di beni divenuti in molti casi commodities vere e proprie, quanta umanità, quanta dignità, quanto rispetto e protezione delle persone viene sprecata, scialacquata, ridotta anch'essa a scarto di lavorazione?
Insieme alla famiglia c'è certamente la dimensione del lavoro che deve essere non più solo difesa ma recuperata nella sua profonda dignità per l'uomo. E' una parte fondamentale o meglio ancora è la vera matrice dell'ecologia integrale.
Ciò che emerge da recenti studi sul fenomeno delle pessime condizioni di lavoro in settori come l'abbigliamento è che proprio durante e a causa dello scenario imposto dalla pandemia Covid quelle dei lavoratori già a rischio siano ulteriormente peggiorate. In alcuni paesi l'esposizione al lavoro forzato (anche minorile) è aumentato.
Il documento che raccoglie i risultati dell'indagine realizzata dall'Università di Sheffield si intitola The Unequal Impacts of Covid-19 on Global Garment Supply Chains. Ciò che emerge è che le restrizioni imposte dal Covid e l'uso inadeguato e ingiusto dei fondi a sostegno dell'economia del settore abbiano esacerbato le condizioni di lavoro per molti addetti in Etiopia, Honduras, India e Myanmar; molti dei quali producono marchi famosi e diffusi nel Regno Unito e in Europa.
L'indagine è stata svolta su un campione di 1200 lavoratori impiegati in 302 fabbriche, individuati tramite la tecnica della palla di neve; ai primi soggetti individuati si chiedeva cioè di indicare altre persone candidabili all'intervista per la raccolta dati.
Questa tecnica è stata utilizzata per ovviare alla difficoltà di individuare candidati dovuta alla conformazione dei territori e alle condizioni della popolazione e dei mezzi a loro disposizione. Il periodo preso in esame va dal novembre 2020 al febbraio 2021.
Nei grafici riportati nello studio l'elenco riporta numerosi indicatori infatti:
la mancanza di equipaggiamento di sicurezza e di protezione sociale; gli abusi sia verbali che fisici, le minacce, impedimenti gravi (all'uso dei servizi igienici per esempio), false promesse, ritardi nei pagamenti, oneri ingiusti, riduzione degli incarichi, discriminazioni in base al sesso, abusi sessuali veri e propri.
Ecco una delle tabelle dello studio, con l'elenco degli indicatori di lavoro forzato:

Se ci interroghiamo solo superficialmente su cosa si intenda per lavoro forzato probabilmente nelle nostre menti si accampano immagini di secoli lontani o di luoghi assai remoti;
ma non esiste solo il lavoro da campo di concentramento e detenzione (pratica peraltro ancora molto in uso e in paesi che su altri fronti consideriamo moderni e industrializzati, come la stessa Cina); ci sono oggi nuovi modi di forzare al lavoro e non solo la diretta coercizione fisica.
Così risponde alla questione la prof.ssa Genevieve LeBaron, del Dipartimento di politica e relazioni internazionali dell’Università di Sheffield, come riporta sempre la testata Greenme da cui citiamo:
Non la pandemia in sè ma l'ingiustizia sistematica di un'economia tutta e solo orientata ai profitti ha fatto sì che le condizioni già precarie di molti lavoratori diventassero ancora più inadeguate e umilianti.
Sul fronte del lavoro minorile, infatti, si è assistito ad una battuta d'arresto della riduzione del fenomeno e ci si aspetta un peggioramento e un nuovo aumento dei numeri proprio a causa degli effetti della pandemia.
Sono 160 milioni i bambini che lavorano con conseguente povertà educativa, morale e grandi rischi per la propria salute e per la loro stessa sopravvivenza.
Sono 63 milioni di femmine e 97 maschi, di un'età compresa tra 5 e 17 anni. Dal 2016 ad oggi il numero è passato da 152 agli attuali 160 milioni. Il primo aumento da quando il dato è monitorato, cioè dal 2000, quando erano addirittura 245 milioni.
Il rapporto è stato pubblicato il 10 giugno scorso e racconta anche che la concentrazione geografica dello sfruttamento del lavoro infantile e minorile è l'Africa sub-sahariana.
Ciò che emerge dai dati e dalle tendenze che si possono ipotizzare è proprio il possibile aumento del numero di bambini sfruttati: entro la fine del 2022 potrebbero crescere di quasi 9 milioni. Sarebbe questo uno degli effetti più tragici e prevedibili dell'aumento della povertà indotto dal Covid. E come succede spesso saranno proprio i più deboli tra i piccoli ad essere colpiti di più:
Servono risorse e impegno di tutte le istituzioni per raggiungere questo ambizioso obiettivo che la coscienza di tutti dovrebbe sentirsi autoimposto.
E' proprio sulle famiglie, sullo sviluppo e l'educazione dei più piccoli e svantaggiati che bisogna investire in maniera sistematica, controllata e persistente.
Dietro ogni processo e decisione, prima delle tendenze di mercato e delle linee guida ci sono sempre le persone con la loro coscienza e responsabilità; ci auguriamo, anzi preghiamo, che siano molti a muoversi davvero per il bene comune, qualunque posizione si trovino a ricoprire. Ne è un esempio luminoso la vita di Robert Schuman, padre fondatore dell'Unione Europea, da poco riconosciuto venerabile dalla Chiesa Cattolica.