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La dissidenza antibergogliana: un libro per comprenderne genesi e natura

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Antoine Mekary | ALETEIA

Emiliano Fumaneri - pubblicato il 18/06/21

Il volume di Massimo Borghesi analizza la stagione dei Catholic Neoconservative e quella della Chiesa di Francesco immaginata come un «ospedale da campo» per un mondo in frantumi, due prospettive profondamente diverse che segnano la coscienza cattolica contemporanea.

Pochi in Italia sanno coniugare lucidità e limpidezza alla pari di Massimo Borghesi, il filosofo e docente universitario (insegna Filosofia Morale a Perugia) che da anni si segnala come uno dei più acuti ingegni del panorama intellettuale. Tutte caratteristiche che ritroviamo puntualmente nel suo ultimo libro: Francesco. La Chiesa tra ideologia teocon e «ospedale da campo» (Jaca Book).

Si tratta del secondo libro che Borghesi dedica alla figura di papa Francesco. Se nel primo (Jorge Mario Bergoglio. Una biografia intellettuale. Dialettica e mistica, Jaca Book, 2017) Borghesi ha indagato il pensiero, la formazione filosofico-teologica e i maestri del pontefice argentino, in questo secondo libro cerca di comprendere la genesi e la natura della dissidenza antibergogliana.

È cosa nota, infatti, che il pontificato di Francesco ha dovuto assistere, fin dai sui albori, a una serie di contestazioni aperte, anche plateali, che miravano a delegittimare la figura del Papa.

Nel mondo anglofono si usa parlare di character assassination per indicare il tentativo di distruggere la reputazione di una persona, di una istituzione, di un gruppo. Ed è proprio da una porzione di quel mondo, in particolare dalla superpotenza degli Stati Uniti d’America, che nasce e prende forma l’opposizione più determinata nei riguardi di papa Bergoglio.

Borghesi è convinto che il pontificato di Francesco non abbia provocato ma solo fatto emergere uno scontro interno alla cattolicità. Prima di Bergoglio c’era stata la reazione al Concilio Vaticano II (1962-1965) che aveva portato allo scisma lefebvriano. Nel caso americano l’allontanamento comincia sotto la presidenza di Ronald Reagan (1980-1989). È allora che nasce la corrente neoconservatrice (o teoconservatrice) formata da Michael Novak, George Weigel, Richard J. Neuhaus, Robert Sirico. É una corrente importante, al punto da diventare dominante nel mondo cattolico Usa a cominciare dagli anni ’90.

Qual è l’ideologia del teoconservatorismo? È il «cattocapitalismo», spiega Borghesi, un pensiero che si prefigge di conciliare cattolicesimo, occidentalismo e capitalismo. È questa la tesi espressa da Michael Novak, capofila della scuola cattocapitalista, che dopo un passato da “socialista cristiano” ha cercato di accreditarsi come un novello Max Weber in salsa cattolica.

Max Weber (1864-1920) è stato il sociologo che a cavallo tra Otto e Novecento ha evidenziato le affinità elettive tra ethos protestante (calvinista in particolare) e spirito del capitalismo. Novak (deceduto nel 2017) cerca di replicare questa operazione sostituendo il cattolicesimo al calvinismo. Borghesi analizza in maniera penetrante il pensiero di Novak, a cominciare da Lo spirito del capitalismo democratico e il cristianesimo, un libro apparso nei primi anni ’80 nel quale il pensatore statunitense si impegna a promuovere un incontro tra cattolicesimo e modernità sul terreno dell’american style of life.

Il problema è che è un terreno malsano.

Novak, come tutti i liberali da Mandeville in poi, abbraccia infatti una antropologia negativa. Il capitalismo, sostiene, si fonda sull’idea dell’uomo peccatore. Una delle conseguenze del peccato è l’egoismo dell’uomo e l’economia capitalistica non fa altro che legittimare, in nome del “realismo”, questa esigenza umana. È in questo senso che Novak considera il capitalismo come il sistema economico più “naturale”, cioè il più adeguato alle esigenze della natura peccaminosa dell’uomo, che viene accettata senza alcuna pretesa di modificarla o migliorarla.

Ma Novak non si limita ad accettare un simile “realismo”. Si spinge fino a farsene apologeta. Così il realismo da pessimistico si trasforma in ottimistico. Come Mandeville – e molti altri prima di lui, anche insospettabili, come documenta il francese Dany-Robert Dufour nel suo saggio La cité perverse – anche Novak propone una teodicea economica. In altre parole, per lui il capitalismo è un sistema capace di tramutare il male in bene. L’ordine scaturisce dal disordine. Il capitalismo trasforma i vizi privati in pubbliche virtù, usando il peccato contro se stesso.

Secondo questa visione delle cose, scrive Borghesi, «il logos si afferma tramite il caos. L’egoismo e la potenza del peccato sono vinti non attraverso la conversione dei cuori, o mediante la dittatura socialista della virtù, ma attraverso la «terza via» del capitalismo democratico, una vita che contiene in se stessa, nel proprio modello concettuale, la capacità di autoregolamentazione».

I benefici del capitalismo sono effetti del sistema, non delle benevole intenzioni individuali. È la vecchia dottrina di Adam Smith sulla “mano invisibile”, una sorta di provvidenza immanente capace di trarre l’ordine dal proliferare disordinato delle passioni. È a questo punto che Borghesi riscontra una sorprendente analogia tra il capitalismo democratico di Novak e il materialismo comunista. Il modello teorico infatti è identico: si tratta di una «struttura senza soggetto» che produce un ordine morale indipendentemente dalle intenzioni dei singoli individui.

Dietro al progetto di una struttura senza soggetto c’è l’ombra della tecnocrazia. La società, così concepita, diventa una macchina sociale dal funzionamento accessibile solo a un ristretto numero di esperti. È il sistema che conta, non le persone che lo compongono e tanto meno le loro azioni e virtù individuali. È evidente il debito di Novak nei confronti della filosofia di Hegel, un sistema dove la storia è dominata dal progresso inarrestabile della Ragione che sfrutta le passioni individuali per stabilire il proprio Ordine.

C’è un passo dello Spirito del capitalismo democratico e il cristianesimo in cui Novak rivela questa ispirazione scrivendo che «non c’è élite in terra che non abbia fatto vittime ma non tutte hanno egualmente liberato e arricchito i molti». Anche per lui, come per Hegel, il progresso della storia – del capitalismo, in questo caso – giustifica le vittime.

Questa ideologia, divenuta dominante nel mondo cattolico statunitense a partire dagli anni ’90, ha provocato una vera e propria mutazione genetica nel panorama del cattolicesimo a stelle e strisce.

Il primo effetto di questa mutazione genetica è l’esclusione di ogni idea di solidarietà e di carità sociale. È il sistema economico a doversi autoregolare. In quest’ottica ogni intervento esterno (dello stato ad esempio) è dannoso perché va a falsare il gioco del meccanismo di forze grazie al quale l’egoismo del singolo si volge a beneficio della collettività. Da qui la critica aperta al magistero sociale della Chiesa o, in alternativa, il tentativo di fornirne una interpretazione accomodante.

Il secondo effetto del cattocapitalismo è l’esclusione di ogni idea di universalità. Il cattocapitalismo è un americanismo: il cattolicesimo diventa una componente storica e culturale dell’Occidente a guida angloamericana (la cosiddetta Anglosfera). Da qui l’operazione propagandistica tesa a identificare Occidente e Cristianità e il carattere spiccatamente borghese – e soprattutto americano statunitense – del cattocapitalismo.

Il terzo effetto è il naturalismo. Il capitalismo crede in un ordine naturale autonomo capace di mettere le passioni e il peccato al servizio del benessere comune. Non è un’esagerazione dire che è un ordine fondato sulla concupiscenza, un sistema che presuppone la concupiscenza. Per i cattocapitalisti c’è dualismo tra natura e grazia: il peccato, qui sulla terra, è “naturale” e la grazia riguarda solo l’eschaton, la fine della storia.

È un modello si presenta come “realistico”. Ma in che consiste questo realismo? È presto detto: nella consapevolezza di non poter realizzare il regno dei cieli sulla terra, perché la terra è il regno dell’imperfezione. Ma è un antiperfettismo solo apparente, facilmente aggirato grazie ad un’astuzia retorica (diciamo pure un sofisma). È vero, si dice, viviamo in un mondo imperfetto. Salvo poi aggiungere che anche in un mondo imperfetto si può pur sempre realizzare, se non il migliore, almeno il meno peggiore dei mondi possibili. È quella che Jean-Claude Michéa, in un libro sempre attuale, definisce la «politica del male minore» tipica del capitalismo – che però, man mano che si estende al pianeta, arriva chiedere di «essere adorato come il migliore dei mondi», osserva Michéa.

Detto in altra maniera, il capitalismo porta una salvezza minore, una salvezza sul piano naturale, che garantisce una prosperità e un benessere materiali. Ecco perché il regno del capitalismo – che coincide geopoliticamente, non a caso, con l’impero americano – deve essere esteso a tutto il mondo e i cattolici americani non possono sottrarsi a questo impegno missionario.

Per l’ideologia cattocapitalista il ruolo della religione cattolica nel capitalismo è importante a monte, al momento della genesi del liberal-capitalismo. Lo spirito cristiano è la condizione della nascita del capitalismo, fonda la laicità della sfera politica e di quella economica nonché la loro autonomia. Ma il suo compito storico si è sostanzialmente esaurito una volta avviato il meccanismo capitalistico, non diversamente dal Dio orologiaio di Cartesio al quale Pascal aveva rimproverato di aver messo in moto l’immenso meccanismo dell’universo e di essersene poi disinteressato…

Il cattocapitalismo di Novak dà così i natali a quel modernismo conservatore che ha plasmato la presenza del cattolicesimo americano (e anche di quello nostrano, alla periferia dell’impero). «Il modernismo conservatore», scrive Borghesi, «è liberal sul terreno economico e tradizionale su quello dei valori politici della old America. […] In esso viene alla luce un dualismo profondo tra la difesa dei valori della vita, come la lotta all’aborto e all’eutanasia, e la totale accettazione del modello liberal-capitalistico celebrato come espressione diretta della libertà personale introdotta nel mondo dal cristianesimo».

Sfugge agli ideologi teocon che aborto e eutanasia sono conseguenze pressoché obbligate dell’egoismo proprio di una società feroce e competitiva come quella capitalistica, che esalta la forza e non ha pietà per i deboli e gli improduttivi. È quanto ha mostrato Sade, l’angelo nero del liberalismo che per primo ha voluto portare alle estreme conseguenze la logica di un mondo dominato dagli “spiriti animali” dell’egoismo, ovvero sottomesso alla brutale legge del più forte.

L’agenda teocon, che sembra trionfare dopo il crollo del comunismo, finisce così per prendere il posto del messianismo catto-marxista degli anni ’70. È con l’elezione di Francesco, il papa sudamericano, che questo programma subisce un forte contraccolpo. I teocon lo capiscono leggendo l’Esortazione apostolica Evangelii Gaudium (26/11/2013), il manifesto programmatico del suo pontificato.

E capiscono bene. Evangelii Gaudium contiene infatti una profonda critica dei presupposti dell’ideologia teocon. Se questa assegna il primato alla morale (e solo per alcuni temi etici), per Francesco invece è l’annuncio ad avere la precedenza. Papa Bergoglio, accusato dai suoi critici di essere un pelagiano o un umanitarista di stampo massonico, è al contrario un convinto assertore del primato della grazia sulle opere. Come scrive Borghesi: «Il messaggio e la persona di Cristo non possono, nel mondo secolarizzato, essere presupposti. Essi devono venire in primo piano. L’annuncio cristiano precede esistenzialmente il dogma e la morale».

Per il papa gesuita il Vangelo si trasmette per attrazione: è la bellezza ad affascinare, prima della morale. Prima viene la grazia e poi, di riflesso, di conseguenza, le opere. Il cristianesimo nasce da un incontro personale, non da un complesso di regole esteriori da osservare. Borghesi parla, sulla scia di Hans Urs von Balthasar, di una «priorità ideale del momento estetico su quello etico».

In più Francesco conosce molto bene il sistema capitalistico avendone sperimentato gli effetti al tempo della terribile crisi finanziaria del 2008 che ha messo in ginocchio l’Argentina impoverendo il paese e spazzando via la sua classe media.

C’è anche questa esperienza personale dietro la sua contestazione dei presunti benefici della tecnocratica “struttura senza soggetto” del capitalismo. Una critica che si trova in un altro documento chiave del suo magistero: l’enciclica Laudato si’(24/05/2015) dove Francesco, ispirato dal pensiero di Romano Guardini, sferza il paradigma tecnocratico.

Altro punto dissonante con l’ideologia teocon è il suo insistente richiamo alla misericordia, alla mitezza e alla tenerezza. È la sua visione della chiesa come «ospedale da campo» che accoglie i peccatori per sanarne le ferite. Un’antilogica per la durezza del cattocapitalismo, intransigente coi peccati individuali almeno quanto è indulgente coi vizi del sistema capitalistico. Un ulteriore motivo di frizione è il “magistero ecologico” di Francesco, una spina nel fianco per la “distruzione creativa” predicata dall’economia capitalistica.

Al realismo capitalista, basato su un pessimismo antropologico, Francesco non contrappone dunque l’utopismo o l’irenismo, ma un realismo aperto all’inserzione della grazia, che non rinuncia alla speranza.

Sono tutti temi, a onor del vero, promossi anche dai precedenti pontificati anche se con accenti diversi. Ma gli ideologi teocon in quel caso adottarono una diversa tattica propagandistica. Non puntarono allo scontro ma, come già accennato, ad assorbire all’interno del proprio discorso il messaggio sociale della Chiesa. Così con Giovanni Paolo II si cercò di mettere un cappello capitalista alla Centesimus annus in nome della difesa dell’Occidente cristiano contro il comunismo e analoga operazione fu condotta sotto Benedetto XVI contro il relativismo etico e l’islamismo.

L’opposizione al papato bergogliano è dunque di natura politica. O meglio teologico-politica (qui Borghesi mette a frutto le conclusioni di un altro saggio di qualche anno fa: la sua Critica della teologia politica). E con la presidenza di Donald Trump la frattura sembra essersi ancor più approfondita, tanto da far parlare di un possibile «scisma americano». Il teoconservatorismo, ormai terminata la sua stagione politica, ha ceduto il passo a un teopopulismo che ha identificato in Trump una sorta di Messia anti-Bergoglio e individuato in Francesco un promotore del globalismo progressista e un nemico dell’America.

Ma le cose stanno davvero così? Per nulla, perché sarebbe una grossolana caricatura, avverte Borghesi, credere al mito di un papa antiamericano. Non bisogna sottovalutare un fatto: Francesco, il papa argentino, si considera un figlio del continente americano al pari degli statunitensi.

Lo prova uno dei discorsi più significativi del suo pontificato: quello tenuto al Congresso (24/09/2015) in occasione della storica visita negli Usa. Non va dimenticato che il giorno precedente Francesco aveva canonizzato frate Junipero Serra, l’apostolo dell’America testimone della lunga storia della presenza ispanica, cattolica e missionaria negli Usa.

Il significato è chiaro: il latinoamericano fa parte a pieno titolo della storia nordamericana. Un’appartenenza che il papa tiene a ribadire al Congresso, davanti al quale si dichiara «un figlio di questo grande continente» per appellarsi poi al volto più nobile dell’America, un volto testimoniato dalle figure menzionate come i «quattro rappresentanti del popolo americano»: Abraham Lincoln, Martin Luther King, Dorothy Day, Thomas Merton. Tutte figure che si sono spese per il bene comune, per la giustizia, per la solidarietà, per l’uguaglianza. Hanno lottato per le persone, non per affermare una struttura impersonale. In questo modo, commenta Borghesi, «Francesco andava al cuore dell’ethos americano, non quello weberiano-capitalistico rappresentato da Wall Street, ma quello rappresentato dal cuore “cristiano” dell’America».

Questo a dimostrazione del fatto che Francesco è un papa missionario, contemporaneamente oltre e sopra le superficiali etichette di “conservatore” o “progressista” che innumerevoli opinion maker ecclesiali si divertono – non sempre in buona fede – a ritagliargli addosso.

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