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Combattere l’accidia (e vincerla) coi consigli di tre antichi monaci

TEEN FALLS ASLEEP

By Twinsterphoto | Shutterstock

Marzena Wilkanowicz-Devoud - pubblicato il 31/05/21

Non avete voglia di far niente? Fatica e profonda tristezza mescolate insieme? Magari a toccarvi è l’“accidia”, un male spirituale che può affettare ogni cristiano. Ecco i consigli di tre grandi monaci che l’hanno vissuto… e superato!

Uno strano stato d’animo, una sorta di tristezza e di malinconia colpiva i primi monaci cristiani, quelli che avevano scelto di rifugiarsi nel deserto per vivere più intensamente, nella solitudine o in piccole comunità, il loro ideale di perfezione spirituale. Questi uomini erano talvolta toccati da un malessere che li rendeva inquieti, insoddisfatti, tristi e affaticati. Un male che impararono a chiamare “accidia”. 

Una sindrome di ansietà e depressione, si direbbe oggi. Questo male di vivere poteva prendere diverse forme: irritazione rispetto ai confratelli e alla vita monastica, mancanza di concentrazione nella lettura e nella preghiera, grande fatica, fame e sonno improvvisi, voglia di novità, desiderio incontrollabile di essere altrove. Il «demonio dell’accidia – che chiamano anche “demone meridiano” – è il più pesante di tutti i demonî», avverte nel IV secolo Evagrio Pontico, monaco che aveva vissuto nel deserto egiziano: 

Egli attacca il monaco verso l’ora quarta [circa le 10, N.d.R.] e lo assedia fino all’ottava [circa le 14, N.d.R.]. Comincia dandogli l’impressione che il sole sia lento assai nella sua corsa, anzi perfino immobile, e che il giorno abbia cinquanta ore. Poi lo spinge a guardare incessantemente dalla finestra, lo porta fuori dalla cella a guardare il sole per capire se l’ora ottava si avvicina e finalmente lo incita a guardarsi intorno sperando nella visita di un confratello. Gli fa prendere in uggia il posto in cui si trova, il suo stato di vita, il lavoro manuale; gli suggerisce che tra i confratelli non c’è più amore, che non può contare su nessuno… 

L’accidia è una sorta di torpore che paralizza la fede e deve essere combattuta. Sì, ma come? Qualche pista ce la offrono tre grandi monaci che hanno combattuto l’accidia e che possono quindi aiutarci a preservare la vita spirituale di ogni cristiano. 

Sant’Antonio il Grande: Ovunque tu vada,
abbi sempre Dio davanti agli occhi 

Asceta ebbro di Dio, come numerosi anacoreti dei primi secoli dell’era cristiana Antonio il Grande (251-356) si ritirò nel deserto per trovare nel silenzio e nella solitudine le condizioni ideali dell’unione con Dio. Come Cristo, è dunque nel deserto che Antonio provò la sua fede. Malgrado il senso di spossatezza fisica, perfino di follia, che lo attraversò, egli decise di resistere alle visioni insufflategli da Satana: «Ho visto tutti i lacci del diavolo sparsi per la terra». 

Quest’ultimo si sforzava di distrarlo dalle sue preghiere spingendolo nello spirito a rinunciare al digiuno a cui si era votato, e nei sogni lo faceva involtolare nelle gozzoviglie… Comprese allora che l’ascesi non deve mai essere considerata un fine in sé. È Cristo che, vivendo in noi, vince le tentazioni; è Cristo che agendo in ciascuno ne scaccia i demonî. La salvezza viene da Dio. Così lo spiegava egli stesso dando questo prezioso consiglio: 

Serba e osserva quanto ti comando: ovunque tu vada, abbi sempre Dio davanti agli occhi; qualunque cosa tu faccia, abbi la testimonianza delle Sacre Scritture, e in qualunque luogo tu ti trovi, non muoverti facilmente. Osserva queste tre cose e sarai salvato. 

San Pier Damiani: La carità
infiammi il tuo entusiasmo 

Monaco-eremita camaldolese, Pier Damiani (1007-1072) si votò giovanissimo alla preghiera, all’ascesi e allo studio delle Sacre Scritture, alternando contemplazione a predicazione. Nominato priore a Fonte Avellana (in Umbria), fu in relazione coi grandi monasteri del suo tempo, come Cluny o Montecassino. 

Nelle sue numerose opere, che fanno di lui un dottore della Chiesa, Pier Damiani insistette su alcune manifestazioni del male. Colpito personalmente dalla sonnolenza durante la sacra lectio, descrisse questa «inevitabile pesantezza delle palpebre, a cui anche santi di grande calibro non resistono». Per lui il rimedio si trova nella carità, che conduce alla vera gioia: 

Che la speranza ti guidi verso la gioia! Che la carità infiammi il tuo entusiasmo! E che in questa ebbrezza il tuo animo dimentichi quanto soffre per espandersi col dirigersi verso ciò che contempla dentro sé stessa. 

San Romualdo: Non c’è altro riposo
che quello eterno 

Monaco fondatore dell’ordine camaldolese, colui che passa alla storia come l’ultimo dei Padri del deserto, san Romualdo di Ravenna (ca. 950-1027) riconobbe di soffrire di accidia: essa si manifestava a lui in particolare durante la memorizzazione dei Salmi. 

Davanti alla ribellione del corpo contro i rigori della vita monastica, egli ripeteva che non bisognava cedere ma al contrario aumentare le veglie, le preghiere e i digiuni. Per lui il monaco laborioso deve ricordarsi che non c’è altro riposo se non quello eterno. Poiché le ore del mattino sono quelle in cui l’accidia si manifesta più frequentemente, bisogna allora occuparle con la preghiera.

[traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio] 

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