Uno strano stato d’animo, una sorta di tristezza e di malinconia colpiva i primi monaci cristiani, quelli che avevano scelto di rifugiarsi nel deserto per vivere più intensamente, nella solitudine o in piccole comunità, il loro ideale di perfezione spirituale. Questi uomini erano talvolta toccati da un malessere che li rendeva inquieti, insoddisfatti, tristi e affaticati. Un male che impararono a chiamare “accidia”.
Una sindrome di ansietà e depressione, si direbbe oggi. Questo male di vivere poteva prendere diverse forme: irritazione rispetto ai confratelli e alla vita monastica, mancanza di concentrazione nella lettura e nella preghiera, grande fatica, fame e sonno improvvisi, voglia di novità, desiderio incontrollabile di essere altrove. Il «demonio dell’accidia – che chiamano anche “demone meridiano” – è il più pesante di tutti i demonî», avverte nel IV secolo Evagrio Pontico, monaco che aveva vissuto nel deserto egiziano:
L’accidia è una sorta di torpore che paralizza la fede e deve essere combattuta. Sì, ma come? Qualche pista ce la offrono tre grandi monaci che hanno combattuto l’accidia e che possono quindi aiutarci a preservare la vita spirituale di ogni cristiano.
Asceta ebbro di Dio, come numerosi anacoreti dei primi secoli dell’era cristiana Antonio il Grande (251-356) si ritirò nel deserto per trovare nel silenzio e nella solitudine le condizioni ideali dell’unione con Dio. Come Cristo, è dunque nel deserto che Antonio provò la sua fede. Malgrado il senso di spossatezza fisica, perfino di follia, che lo attraversò, egli decise di resistere alle visioni insufflategli da Satana: «Ho visto tutti i lacci del diavolo sparsi per la terra».
Quest’ultimo si sforzava di distrarlo dalle sue preghiere spingendolo nello spirito a rinunciare al digiuno a cui si era votato, e nei sogni lo faceva involtolare nelle gozzoviglie… Comprese allora che l’ascesi non deve mai essere considerata un fine in sé. È Cristo che, vivendo in noi, vince le tentazioni; è Cristo che agendo in ciascuno ne scaccia i demonî. La salvezza viene da Dio. Così lo spiegava egli stesso dando questo prezioso consiglio:
Monaco-eremita camaldolese, Pier Damiani (1007-1072) si votò giovanissimo alla preghiera, all’ascesi e allo studio delle Sacre Scritture, alternando contemplazione a predicazione. Nominato priore a Fonte Avellana (in Umbria), fu in relazione coi grandi monasteri del suo tempo, come Cluny o Montecassino.
Nelle sue numerose opere, che fanno di lui un dottore della Chiesa, Pier Damiani insistette su alcune manifestazioni del male. Colpito personalmente dalla sonnolenza durante la sacra lectio, descrisse questa «inevitabile pesantezza delle palpebre, a cui anche santi di grande calibro non resistono». Per lui il rimedio si trova nella carità, che conduce alla vera gioia:
Monaco fondatore dell’ordine camaldolese, colui che passa alla storia come l’ultimo dei Padri del deserto, san Romualdo di Ravenna (ca. 950-1027) riconobbe di soffrire di accidia: essa si manifestava a lui in particolare durante la memorizzazione dei Salmi.
Davanti alla ribellione del corpo contro i rigori della vita monastica, egli ripeteva che non bisognava cedere ma al contrario aumentare le veglie, le preghiere e i digiuni. Per lui il monaco laborioso deve ricordarsi che non c’è altro riposo se non quello eterno. Poiché le ore del mattino sono quelle in cui l’accidia si manifesta più frequentemente, bisogna allora occuparle con la preghiera.
[traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio]