Del titolo del suo libro, scritto per raccontare, certo, ma anche per dare munizioni ad altri ancora impegnati sul fronte che lui ha da poco lasciato, mi colpisce quel piccolo avverbio tutto una sillaba: più. Perché prima Niccolò ne ha avuta di paura, e rabbia, dolore, solitudine, odio persino.
Ci è passato attraverso, occhi fissi sulla meta e mani in quelle di chi lo amava prima, durante e ora: fratelli, genitori, amici. Anche in quelle di Dio, le ha messe; le sue ridotte pelle e ossa dalla ferocia necessaria e controllata delle terapie, fatte forse un po' tremare dall' angoscia e la stanchezza. Ce le ha messe per sentire che intanto, in ogni momento anche il più buio, Lui c'era.
Ché Dio è più importante che ci sia, lì con noi, e non tanto che passi senza farsi notare e ci sgomberi il corridoio degli scatoloni abbandonati dalla vita ad impedirci il passaggio.
Niccolò Palombini allora aveva solo 16 anni e tutto il resto che un ragazzo sembri poter desiderare e per cui essere grato: una famiglia che lo amava, mamma, papà e due fratelli gemelli; una ragazza, lo sport, la scuola, la bellezza e un orizzonte aperto. Sei giovane, la vita è quasi tutta davanti a te, sembrava potersi sussurrare.
Invece ha avuto anche una fitta di dolore alla gamba e con quella un sospetto e da quello indagini e in esse una diagnosi: osteosarcoma. Bam, prima sberla.
Ho incontrato questa storia sulle pagine di Avvenire che fanno un ottimo servizio raccontando di lui e di come lui stesso abbia deciso di interpretare la prova che gli è toccata.
Si dice prova ma è una malattia, solo che è proprio così, prova: torchia, spoglia, sfinisce e dimostra. Chi siamo, cosa conta, quanto è tremenda e magnifica la vita e dove essa porti.
Dice una cosa meravigliosa, che dovremmo imparare a memoria e che mi ricorda una frase di Don Giussani di cui ho memoria solo nella mia personale interpretazione: è bello, è liberante quando non devi decidere ma le circostanze stesse sono così chiare che devi solo starci dentro e obbedire. Nicco, invece, dice così:
Ha scritto e pubblicato con Newton Compton un libro, diario non solo della malattia, ma della lotta, delle cure e della guarigione. Lo ha scritto e pubblicato per dare qualcosa ai bambini di strada di Etiopia, attraverso la onlus Busajo.
Niccolò gioca a tennis e a calcio e, racconta il giornalista di Avvenire, in questo match ha dovuto esprimersi in entrambe le discipline: da solo a solo come nel tennis e anche in squadra, come nel calcio: occhi alla porta in cui segnare il suo goal ma grazie ai passaggi e alla difesa di tutti.
E la fede? La fede c'era già e ed è stato il luogo del dialogo più nascosto e necessario, quello col mistero che innerva tutto, di una vita, persino la malattia.
Ecco perché ne ha voluto scrivere, non solo per consolarsi e aiutarsi a processare vicende tanto grandi ma per offrire qualcosa a qualcuno con una velocità diversa dai trending topic e dalle ondate di hashtag. La malattia e la guarigione, la formazione di un ragazzo che diventa uomo sono faccenda che ha ben altri ritmi.
E queste storie, tanto simili se guardate come cartelle cliniche, sono invece tanto diverse e tutte egualmente necessarie perché ciascuno mostra che c'è un solo modo di vivere il dolore e la paura ed è il proprio, ma ci si può aiutare e fare compagnia.
Ci sono dei passaggi fulminanti, come questo per esempio:
Oh queste meravigliose ammissioni, che ci fanno sentire tutti più normali. E diciamo anche tra noi, persone di fede, fedeli di Cristo: è brutto soffrire, le mutilazioni tolgono, la sofferenza quasi soffoca, il dolore duole, le prove provano.
Ha sofferto dolore in tutte le sue odiose varianti, persino quelle che si ritorce contro noi stessi e che si traduce in disgusto per la propria immagine.
Niccolò ha un altro merito: un'onestà che a volte nemmeno uomini che dovrebbero essersi fatti grandi già da un po' dimostrano. Non svende consolazioni a buon mercato, non appende cappi ai colli altrui per ricattarli con vigliacchi quanto infondati "basta crederci", "se vuoi puoi", " la guarigione è nelle tue mani". Non tutte le malattie guariscono, qua. Non tutte le vite spezzate poi ripartono (in questa). Ma non è quello il punto.
«Non tutto è destinato a finire bene» ma «tutto merita un tentativo».