Carissimo Flavio buongiorno e grazie della disponibilità a farsi conoscere anche ai nostri lettori attraverso questa conversazione: ci piacerebbe che emergesse un ritratto, un racconto che faccia intuire ai lettori la sua storia perché possa diventare di ispirazione.
A me ha colpito moltissimo il racconto che si trova sul suo sito proprio sotto la voce "La mia storia": mi sembra che sia diventata una metafora, una matrice di quello che è successo dopo: quando arriva il bilico nelle vie del paese con i pezzi smontati di quello strano macchinario preso negli Stati Uniti, una macchina per realizzare e stampare sacchetti di carta. Vorrei far emergere la sua persona con la visione che la sta guidando e anche come questa visione del lavoro e del business è dentro la sua visione di vita.
Ci diamo del tu?
Certo. Volentieri
Ci diamo del tu perché dà la sensazione di essere più vicini. Anche questo è un mio elemento caratteristico. Preferisco così, per essere più in simbiosi, così ci si intende meglio. Ho studiato molto questo fatto del tu, del lei e del voi e questa è la mia esperienza.
Su questo tema della scelta tra il tu e il lei vorrei farti subito una domanda. Anche io sento spontaneamente l'esigenza di usare il tu ma vedo in questa scelta anche il rischio di eccedere in amicalità, in empatia e quindi la difficoltà, quando è necessario, di ristabilire le giuste distanze.
E' vero questo ma proviamo ad essere più sottili e profondi su questa affermazione; sì, può essere un problema retrocedere, ristabilire i confini se dai il tu; ma è altrettanto vero che esistono due elementi importanti a nostra difesa.
Cioè dare del tu non espone necessariamente ad “abusi” o a eccessi?
Ecco i due elementi: primo “patti chiari e amicizia lunga”. Secondo: “ti do il tu ma io sono me stesso”.
Di fatto quando dai il tu ti prendi la responsabilità di dominare gli eventi e quindi anche di riuscire a indietreggiare o andare avanti. E' una responsabilità che devi assumerti ad ogni passo. Se scegli di usare il lei o il voi, invece, rischi di appoggiarti ad uno strumento che tiene le distanze.
Come artificiosamente? Delegando ad altro che non sia io stesso?
Naturalmente ora stiamo enfatizzando, mettiamo l'accento sulla questione, ma quando dai il tu ti assumi una responsabilità comunicativa e comportamentale non indifferente. Riuscire a usare il tu vuol dire permettersi di entrare in campo.
Proprio ieri ho vissuto questa esperienza: in una delle mie aziende il responsabile amministrativo manda molto - troppo - agevolmente delle mail a tutti i collaboratori, disponendo, ordinando... Ma un conto è comunicare entrando personalmente in campo un altro è farlo da lontano, senza misurarsi davvero coi problemi.
Anche una scelta come questa, fatta con consapevolezza, ti dà la possibilità di crescere.
E poteva sembrare solo una scelta di stile, di galateo. Invece...
Devi essere te stesso fino alla fine. Sai cosa significa per me dare il tu, cosa implica?
“Mi assumo le responsabilità: mi conferisce potere, potente opportunità fonte di gioia e mi fa star bene”.
I luoghi comuni, il “si dice” affermano che il lei o il voi significhi dare rispetto. Ma chi lo ha detto? Sono condizionamenti inconsci. “É sempre stato fatto così” ma è proprio vero? Diamo più peso alla forma che alla sostanza.
Cosa c'è dietro la tua storia? Sembra iniziare da quel macchinario enorme per stampare sacchetti di carta che arriva dall'America, con pezzi arrugginiti da pulire e rimontare e per di più incompatibile coi nostri sistemi di alimentazione. Leggendo questo racconto è bellissimo vedere da una parte la disillusione di chi pure vi aiuta e dall'altra il vostro incontenibile entusiasmo. Ma cosa ha innescato questo inizio? Qual è l'inizio dell'inizio?
Credo sia molto efficace fare esempi storici, reali per capire il perché delle cose, anche della mia storia. Si sa che nei primi 5,6 anni dell'esistenza di ciascuno avviene di fatto l'imprinting nello sviluppo di una persona, la vita che viene dopo è condizionata da questa strutturazione iniziale.
La storia, anche la mia dunque, inizia da bambino. Ti va bene se torno indietro un po'?
Certamente!
La mia educazione e storia familiare sono state decisive; nasco da una famiglia contadina. Mio papà gestiva insieme con mio zio una piccola azienda di lavorazione del legno: realizzavano soprattutto ringhiere per le scale. Era una piccolissima realtà che mi affascinava moltissimo, già a 7, 8 anni ci lavoravo. I miei giocattoli? non ne ho mai e dico mai (anzi, solo una volta) comprato uno. E li desideravo tanto, allora me li fabbricavo, usavo il tornio. Amavo capire le macchine e il loro funzionamento.
“Ma se io lo faccio e poi lo vendo?” - mi chiedevo. Mosso da questa rudimentale comprensione di come girano le cose ho fatto un porta fiammiferi e l'ho portato dal panettiere chiedendogli se avrebbe potuto metterlo in vendita nel suo negozio. Ne ho fatti tre e li vendevo a 100 lire l'uno (mi ha detto sì con un certo compatimento). Ma iniziava la passione, iniziavo a capire i meccanismi, a comprendere i fondamenti di un'impresa, a intuire insomma come funziona un business.
Ne vedevi gli elementi principali sperimentando personalmente e in modo semplice.
Mio papà a volte mi portava con sé per la consegna delle forniture di piedini per divani; andavamo nelle fabbriche dei salotti, non puoi capire l'entusiasmo. Per me era come vedere la Madonna di Lourdes (sorride, Ndr): “anche io la voglio la fabbrica!”, pensavo. Chiedevo ai proprietari come si faceva, li tormentavo di domande. D'estate lavoravo sempre. Mio padre era molto rigoroso e quindi lo ringrazio. Quando sei piccolo non apprezzi ma dopo sì.
Tutte queste premesse per capire come mai arriva questo bilico. A 14 anni facevo 26 km in motorino, con il Ciao di mia sorella, per andare a vedere questa fabbrica che produceva schiuma per i salotti. E così germoglia questa idea di valorizzare le opportunità, di fare cose nuove. Allora dovevo decidere quali studi fare; tra le mie passioni c'era anche quella per il disegno e per le auto: volevo diventare stilista di auto. Per questo a 16 anni ho scritto a Pininfarina.
E ti ha risposto?
Il 31 dicembre 1986: sì, mi ha risposto. Mi invitava a visitare l'azienda. Non sono andato a fare il colloquio perché ero timidissimo. Ma mi ha colpito il fatto che qualcuno mi abbia risposto: “vuol dire che ci sono, vuol dire che si può”. Sono partito dai campi e quello che so ora l'ho imparato sul campo. Non sapevo nemmeno la differenza tra bolla (ora ddt) e fattura, non sapevo niente.
Però quello che emerge è una forza interiore, una mossa personale, il desiderio di fare e di costruire. Magari senza competenze e con alcune iniziali ingenuità ma quel tipo di energia è impagabile, no? Alimenta tutto il resto
Tutto quello che ti sto raccontando è per far vedere che cosa ci ha portato a comprare un macchinario come quello. Tutta l'esperienza che ho dovuto fare per tanti anni ha comportato numerose difficoltà. Chi è che prende dall'altra parte dell'Oceano una macchina vecchia tutta da rifare? Un folle senza esperienza.
Eppure non sembri pentito; non mi pare che avresti davvero voluto risparmiarti tutte queste fatiche e ostacoli. Perché avresti perso tanto senza rischiare. Ho capito bene?
Sì sì, è vero. Io lo dico spesso: è vero che la mia fino ad un certo punto è stata una vita 80-20 dove ho investito ottanta per ottenere il venti ma in seguito con il venti del tempo ho ottenuto l'ottanta dei risultati. Ho fatto quasi vent'anni di fatica prima di prendere il volo. Ma poi quando prendi il volo vai ad una velocità molto superiore.
Diceva mia nonna che è morta a 95 anni “Nino, ricordati che non si vive solo di grammatica ma anche di pratica”. Era la mia guida. Avevo 8-10 anni, con settanta anni di differenza...ecco per usare le sue parole direi che oggi c'è troppa grammatica.
E tutto questo, cosa ha generato in te?
Ed ecco da qui nasce la mia missione: per stare sul piano generale il mio obiettivo è offrire la possibilità di dare un po' di praticità a quella troppa teoria che oggi va per la maggiore.
Servono esempi ed esercizi concreti: l'esempio lo sappiamo è il miglior insegnamento. Servono storie vere che possano ispirare. Ecco perché voglio scendere in campo: perché voglio che diventi visibile questo. Tutta questa esperienza, sofferenza e gioia anche, a servizio di chi è? Di me stesso? Cosa me ne faccio? Voglio che sia a servizio e di esempio per gli altri. Per questo voglio che sia conosciuto, noto, trainante perché è giusto, doveroso e atteso.
La tua storia di imprenditore è da raccontare dunque non come sfoggio di azioni eroiche ma come ispirazione ed esempio
Per me è così.
Ero un bambino curioso e volenteroso che amava in modo eclettico il business, a cui piaceva da matti l'idea di diventare imprenditore.
Se ti chiedevano “cosa vuoi fare da grande?” quindi non rispondevi l'astronauta o il pilota ma l'imprenditore?
Volevo diventare un imprenditore, avevo un entusiasmo dentro che non hai un'idea. Mentre andavo ancora a scuola, avevo 16 anni, c'era un'azienda nella quale mio fratello che ha 4 anni più di me lavorava già come perito meccanico; mi proposi anch'io al titolare. Il titolare, soprattutto per tenerci impegnati (e forse anche fuori dai piedi?) ci dice “serve una macchina che pulisca le cozze di mare, che tolga il bisso (ciuffo di peli che spunta dal mollusco, Ndr). Oggi questa attrezzatura non esiste”.
E voi?
Noi in tre anni l'abbiamo progettata e costruita, andando in varie officine meccaniche a chiedere la realizzazione delle componenti. Avevo 19 anni, stavo finendo la scuola.
Siamo andati a presentare questo primo impianto al Cibus di Parma (l'evento fieristico del settore agroalimentare più importante d'Italia e con visibilità internazionale, Ndr) , e abbiamo addirittura preso delle commesse. La faccio breve: mi presento allo stand delle macchine che puliscono il pesce e il titolare ci ospita nel suo spazio. Facciamo andare la macchina che pulisce le cozze che fa un rumore pazzesco, per la dimostrazione.
Succede che abbiamo venduto 7 impianti!
Ma c'era il problema di costruirle queste macchine; uno dei nostri clienti era la Standa. Mi rendo subito conto che il processo innescato sta diventando una cosa enorme, difficilissima per me da gestire, capisco che non ne sono capace.
Allora penso di vendere tutto a lui. Ne parlo con mio fratello; coi soldi che prendiamo, poiché mi ero appassionato del materiale carta, decidiamo di investire sulla produzione di sacchetti di carta.
C'era una rivista che sul retro aveva la pubblicità di questi macchinari per lavorare la carta; prendo il numero e col telefono a gettoni chiamiamo, ci risponde un rappresentante di Varese. Lo abbiamo contattato e ci è venuto a trovare per presentare la macchina. Ho il ricordo di noi a casa di mio padre, seduti al suo grande tavolo con questo rappresentante che ci parla di questa macchina: “è una Potdevin...”.
Speravamo ci fosse mercato per questi prodotti (sacchetti in carta) perché vicino a noi c'era un produttore di sacchi per mangimi che lavorava moltissimo. Nasce la 2z SdS (società di servizi, Ndr), società mia e di mio fratello, necessaria per acquistare il macchinario; ci appoggiamo ad una società di import-export (non avevamo idea che servisse) e il 1 febbraio 1990 versiamo il saldo per l'acquisto. Ecco, in breve, tutto quello che c'è prima di quell'inizio.
Si capisce che ci sarebbero mille altre storie e incontri da raccontare.
Ti voglio dire solo una piccola cosa prima di proseguire: sai perché abbiamo venduto il prototipo della macchina per pulire le cozze e il nostro know how? Sì, è vero ci affascinava la carta e il processo da gestire per produrre tanti impianti e venderli era complesso; ma anche per un altro motivo: è successo che nel fare il collaudo all'impianto ho infilato il dito e me lo sono macinato. Eppure non si vede.
Non l'hai perso?
No, no. Ma ti spiego perché.
Mio fratello mi libera la mano dal macchinario, un amico mi accompagna in pronto soccorso. I medici mi dicono di dover amputare metà dito. Io chiedo: “oppure? Non si può ricostruire?”
“Si può tentare ma tieni conto che se va in cancrena devo tagliare tutto il dito”.
Ai medici ho detto che perdere un terzo o il dito intero per me era uguale per cui aveva senso rischiare e provare a ricostruire. “Perché il 2 febbraio ho un concerto di fisarmonica”, ho detto loro, “e voglio farlo”. Mi hanno operato, messo ferri ovunque e io il 2 febbraio ho fatto il mio concerto, suonando da solista davanti al pubblico. Mi faceva malissimo, allora, ma ho il mio dito e suono ancora la fisarmonica. E' stato proprio a causa di questo incidente, però, che abbiamo deciso di cedere questo mercato; abbiamo pensato non fosse per noi.
Leggevi quel che capitava come indizi sul tuo percorso, come qualcosa che doveva suggerirti in che direzione dovesse andare la tua storia.
Sì mia mamma mi ha sempre insegnato che le cose che vengono hanno sempre senso e bisogna capire perché vengono. Se una cosa non va, non va. Bisogna insistere ma fino a un certo punto.
E' stato giusto, non lo è stato? Non so ma questo incidente è stato per me, per noi come un tradimento. Ma ho fatto il concerto “perché volere è potere...”
Leggendo quello che scrivi per spiegare il tuo lavoro di business angel ho visto che le immagini dominanti sono due: il fuoco e il volo. Come stanno in relazione queste spinte ideali così alte con il concreto? Come concili visione e operatività? Qual è il vento che ti fa alzare in volo e il combustibile che tiene acceso il fuoco?
Servono delle premesse:
“Tengo acceso il fuoco della passione dentro il mio cuore”.
È un messaggio forte. Uno deve avere la passione dentro, dentro il cuore. La passione nasce da dentro. “E quando uno non ce l'ha?” Non è vero che non c'è, c'è ma è coperta, infangata o infastidita da eventi oppure uno non ha ancora capito che orientamento ha. Serve passione ardente, uno deve ardere.
Poi parliamo di volo, premessa: il paradosso del volo qual è? Per volare bisogna avere le ali, sicuramente, ma anche il vento che vola CONTRO. Se non ti vola contro non voli. Cosa voglio dire? Esempio. Se devi andare in quota servono reattori che bruciano (competenze, capacità, risorse) ma anche gli eventi contro. Se ti vengono contro voli se no precipiti. È un paradosso ma funziona così.
La vita va conquistata. E' necessario fare e anche sbagliare. Così si va contro vento. Ecco il mio discorso in esordio: ok la grammatica ma anche la pratica! La pratica è il vento che ti viene contro. Ecco la filosofia del tu; la filosofia è importante perché impregna lo stile di azione. Il fuoco i motori che vanno, il volo contro vento, devi proprio andare, devi fare.
Il vento sono le avversità e sono quello che ti serve. Se non vai contro vento non prendi il volo: significa che se vuoi vivere in maniera adagiata precipiti per terra.
Guardiamo la natura che è nostra maestra, perché noi siamo uomini e viviamo secondo le stesse leggi che la natura ci mostra. Se non affrontiamo le avversità, cioè quello che la vita ci offre, e non le viviamo come esercizi che la vita ci dona, noi precipitiamo.
Devi uscire dalla zona comfort, questo è il principio. È importante che venga capito e in caso di difficoltà occorre chiedersi “è una difficoltà o un'opportunità?”. Questo mi mette in condizione di volare perché è un contro-vento- come motto io ho: “trasformo le avversità in opportunità, cavalco l'onda degli eventi in sincronia, sentendomi nel giusto”.
Come alimenti questa tua visione?
Tutti i giorni faccio questo esercizio per condizionare il mio inconscio, per poterlo direzionare in maniera favorevole. Ho raccolto e raccolgo tuttora frasi significative ed esperienze che ho trascritto e che ripercorro ogni giorno, sono diventate le mie linee guida. Me le ripeto a memoria tutti i giorni. Per farlo mi servono circa 30, 40 minuti. Spesso mi sento chiedere: “Ma dove trovi il tempo per fare anche questo?” E invece lo trovo il tempo, è proprio questo il tempo da investire poiché queste linee guida mi formano e mi permettono di affrontare le sfide quotidiane.
Mentre facevi tutta quella fatica sapevi che ti avrebbe dato un risultato? Perché qualcuno si potrebbe fermare prima, potrebbe dire “ok, così è abbastanza”.
Sì sì, avevo un principio. C'era mia mamma che mi dava molta forza, e mi diceva sempre con varie affermazioni, “chi la dura la vince, non bisogna mollare, bisogna crederci” e per crederci bisogna avere fede. Ma fede in cosa? Nella vita. Te lo dico senza recitare, lo sento dentro perché l'ho verificato nella quotidianità. Bisogna avere fede, se ci credi tu non hai ostacoli. C'è come un allineamento provvidenziale delle cose...non posso andare oltre e parlare del divino. Io mi nutro di Bibbia e di Vangelo. Lo dico ma non lo posso dire troppo perché potrei essere frainteso. Faccio qualche battuta, qualche riferimento, cerco sempre di mediare. Per esempio una massima che ripeto spesso è questa: “Seguo il consiglio del mio cuore perché nessuno è più fedele di lui”. Già questa affermazione che è della Bibbia (viene dal libro dei Proverbi) è una bomba. Come si fa a dire che la Bibbia non ha un contenuto esplosivo di verità? Allora sai come faccio io? Non dico a nessuno che mi nutro di questi messaggi ma Glieli dico e basta. E alla fine gli inietto questo sentimento positivo e solo col tempo svelo la fonte: “sai dov'è scritto? nella Bibbia”.
Questo approccio di fiducia ostinata (e di fede) tiene nei momenti difficili? tutti ne abbiamo e anche il mondo dell'impresa ne attraversa, da quello che racconti si capisce che ci sono croci “dedicate” anche per gli imprenditori.
Ce ne sono eccome. Sai come si fa? Arriva una disgrazia? Rovesciala. E' come una foglia che ha due facce: la prima è una disgrazia, l'altra è il contrario e la chiamiamo grazia. Così vale per gli eventi che ci colpiscono. Arriva una disgrazia che però porta una grazia in dote; subito non la puoi vedere, però ce l'ha. Lo capisci nel tempo, perché hai fede e fiducia. E alla fine sai cosa puoi dire? Grazie.
Grazie al fatto che è arrivata una macchina vecchia e all'inizio inutilizzabile, grazie che mi sono macinato il dito, grazie di quell'intervento doloroso...ma lo puoi dire dopo!
Noi dobbiamo diffondere messaggi di questo tipo. Il mondo dell'imprenditoria ne ha un bisogno vitale. Perché desidero coinvolgermi con Aleteia? Perché sono un testimone, ne ho passate di tutti i colori ma ho un entusiasmo inarrestabile. Voglio rendere un servizio di bene: bisogna fare grandi cose perché è giusto, doveroso e atteso.