Un po’ perché dopo un anno di sola pandemia, nelle scalette dei Tg, ogni notizia maggiore che funga da divertissement viene salutata con moti d’istintivo sollievo; un po’ perché le due notizie erano effettivamente riguardevoli: sta di fatto che da tre giorni a questa parte la SuperLega e l’apologia di Beppe Grillo per il figlio Ciro hanno spodestato il Covid dalle prime pagine dei giornali e dai primi posti delle scalette di radio- e telegiornali.
Se poi il ventilato gigante calcistico sembra rapidamente manifestarsi per un colosso dai piedi d’argilla, tale che forse non arriverà mai a mettersi in piedi, la vicenda di Ciro e di Beppe Grillo sembra ben lungi dal vedere la parola fine, e nel frattempo una tempesta d’opinione si è scatenata nel grande bicchiere dei social.
Le pagine della Bibbia accanto a quelle dei giornali
Insomma, si guarda a queste paginacce di cronaca viola e torna in mente l’adagio “le colpe dei padri ricadono sui figli”. In fondo è questo che Beppe pensa, ed è il motivo per cui chiede di espiare la pena per un fatto che non sussisterebbe.
L’adagio è peraltro di ascendenza biblica, e risale almeno a un arcaico passo dell’Esodo:
Io, il Signore, sono il tuo Dio; un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione […].
[…] che castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione.
Ex 20,5. 34,7
L’autore sacro intendeva sottolineare la gravità delle colpe, le cui ripercussioni sono ben lungi dal fermarsi sul solo reo, ma la riflessione teologica pose ben presto mano a tornire meglio il concetto.
Già nel VII secolo, ad esempio, si lega all’attività profetica di Geremia questa riflessione:
In quei giorni non si dirà più:
Ger 31,29-30
“I padri han mangiato uva acerba
e i denti dei figli si sono allegati!”
Ma ognuno morirà per la sua propria iniquità; a ogni persona che mangi l’uva acerba si allegheranno i denti.
Il motto però era già diventato proverbiale (o lo era sempre stato?), e le convinzioni popolari sono dure a morire e ardue a riformare: un secolo dopo Geremia anche Ezechiele sarebbe tornato a cimentarsi nell’impresa:
Mi fu rivolta questa parola del Signore:«Perché andate ripetendo questo proverbio sul paese d’Israele:
“I padri han mangiato l’uva acerba
e i denti dei figli si sono allegati?”Com’è vero ch’io vivo, dice il Signore Dio, voi non ripeterete più questo proverbio in Israele. Ecco, tutte le vite sono mie: la vita del padre e quella del figlio è mia; chi pecca morirà».
Ez 18,1-3
E la riflessione si sviluppa dettagliatamente per l’intero capitolo, con dovizia di casi. Qui «l’essemplo basti». Secoli dopo le redazioni di questi scritti, il nascente cristianesimo utilizzò i testi ricordati e diversi altri per imbastire quella che avrebbe preso il nome di “dottrina del peccato originale”: certamente ognuno paga per le proprie colpe, come ben spiega Ezechiele, ma è pur vero che – in generale – «non c’è chi agisca bene, neppure uno» (Sal 13[14],3); al di là delle colpe individuali, poi, esiste una reità diffusa e radicale per cui ben presto i cristiani hanno iniziato a confessare che, in un certo senso, nessuno è innocente.
La debolezza della “morale del consenso”
Sul piano della storia del dogma, ciò equivaleva a postulare che vi fosse un modo per cui il peccato – non questo o quel peccato, ma il peccato – si trasmettesse di generazione in generazione, e furono proposte diverse teorie alla bisogna, ma non ci interessa ora passarle in rassegna: quel che invece vorremmo suggerire – passando un poco dalla teologia alla morale (e al costume) – è che c’è un aspetto per cui non solo di certo quella notte ci fu uno stupro, ma – quel che è peggio – ne siamo responsabili un po’ tutti.
Due anni prima dei fatti a cui ci riferiamo uscì nelle librerie italiane il primo saggio di successo di Thérèse Hargot. Prima di giungere alla metà del libro si legge:
[…] durante una gita scolastica […] cinque ragazzi vengono sorpresi mentre hanno rapporti sessuali con una ragazza. A lume di naso, questo non è né il luogo […] né la maniera (cinque sono tanti). Ma attenzione, secondo la morale del consenso, ciò che è veramente accaduto resta ancora da determinare. La ragazza era consenziente o no? È lì il punto. Lei dice “sì”, è una “gang bang”. Lei dice “no”, è uno “stupro di branco”. Quanto ai ragazzi, il loro consenso sembra andare da sé. […]
Thérèse Hargot, Una gioventù sessualmente liberata (o quasi), Venezia 2017, 80
L’autrice sviluppa quindi una critica personalistica del concetto di “consenso”, osservando che esso suppone una capacità nient’affatto data una volta per tutte (e che comunque non si deve presumere prima di una certa età): da tre giorni in Italia si discute del “consenso” che la ragazza avrebbe dato («un video lo prova!», ha sbraitato Grillo, grottesco nel suo non avvedersi dell’assurdità). Evidentemente, il consenso della modella che ha sporto denuncia non viene discusso nei termini filosofici proposti dalla sessuologa: “se ha detto sì vuol dire sì”. È la linea di difesa dei Grillo e di chiunque si schieri dalla parte di lui, ed è il calco esatto del mantra femminista “no vuol dire no”.