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Spiritualità
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“El Abrazo”, di Mikel Azurmendi: gli Atti degli Apostoli oggi

MIKEL AZURMENDI

Diócesis de San Sebastián

Jorge Martínez Lucena - pubblicato il 20/04/21

Romanziere e pensatore spagnolo, fondatore dell'ETA e uno dei suoi più acerrimi nemici, parla della sua “scoperta” di Dio, del cristianesimo e della Chiesa

Mikel Azurmendi è di San Sebastián e ha 78 anni. Era professore universitario e oggi è in pensione.

La sua vita è stata piena di contrasti. È stato espulso dal seminario all’epoca di Franco ed è andato a vivere in Francia, dove lavorava e al contempo studiava. È lì che lo hanno invitato a fondare il gruppo terroristico dell’ETA, in cui ha militato fino a quando ha visto che ci sarebbero stati dei morti. Allora ne è uscito e ha seguito l’avventura europea.

Col tempo è tornato a insegnare nei Paesi Baschi, dove è stato tra i pochi ad avere il coraggio di condannare pubblicamente gli attentati, diventando quindi uno degli obiettivi dell’ETA e finendo per essere il primo portavoce del Forum di Ermua e il fondatore di Basta Ya.

Nel corso della sua vita ha esercitato varie professioni: da operaio in una fabbrica in Francia alla direzione dell’Instituto Cervantes di Tangeri, passando per le lezioni di Filosofia all’Universidad del País Vasco (UPV) fino alla scrittura di romanzi polizieschi.

È stato premiato per la sua attività a favore dei Diritti Umani e per la sua letteratura, che oscilla tra la finzione, lo studio etnografico, la biografia e i saggi più svariati.

Riscoprire Dio

Con questa vita così ricca e intensa, piena di successi e di rischi, e passati ormai i settant’anni, è arrivato il momento in cui credeva che sarebbe entrato in ospedale per morirvi. Fino a quel momento pensava che Dio non esistesse, e che se esisteva non aveva niente a che fare con la sua vita.

Testimonianza di Mikel Azurmendi alla diocesi di San Sebastián:

Molto critico nei confronti dell’Illuminismo, lo era anche verso il pandemonio politico che lo circondava, ma il suo unico orizzonte di significato era l’immanenza e la bellezza della terra, rigogliosa e lussureggiante intorno a casa sua.

Quanto a Dio, era agnostico, come il suo amato Wittgenstein, che riconosce come uno dei grandi filosofi di tutti i tempi.

In quel letto d’ospedale è dovuto rimanere a lungo in un’agonia insonne in cui ha iniziato ad ascoltare il programma radiofonico che Fernando de Haro conduceva sulla catena COPE.

Nella voce di quell’uomo e nei suoi commenti sull’attualità ha iniziato a sorprendersi del fatto che ci fosse un altro a guardare il mondo sempre capace di riscattare i tratti positivi di ciò che accadeva, come se ci fossero ragioni per aspettarsi un destino felice.

La Chiesa è una tribù”

Una volta ripresosi, ha ripreso il rapporto con Javier Prades, rettore dell’Università San Damaso di Madrid, con cui aveva concordato in alcune occasioni in una tavola rotonda.

Si è reso conto che gli aveva inviato per anni gli auguri di Natale senza ricevere alcuna risposta, e si è messo in contatto con lui per chiedergli scusa.

Da quei due rapporti, da quei due incontri, è nato lo stupore che lo ha portato a riscoprire il cristianesimo, non come mito o insieme di norme, confessa, ma come una vita personale o comunitaria che trabocca gratuità.

È proprio questo che narra nel suo libro El abrazo. Hacia una cultura del encuentro (Almuzara, 2020), in cui fa esperienza, incontro dopo incontro, del fatto che la Chiesa è una tribù – come la chiama lui – che è sempre stata lì, palpitante di umanità, mentre lui non la vedeva, perché “per vedere bisogna guardare”.

La lettura di quest’opera risulta affascinante. È scritta in castigliano, e leggerla costituisce l’opportunità di scoprire che l’evangelico “Siate come bambini” continua ad essere possibile a qualsiasi età, e che il modo in cui la nostra vita cambia ha a che vedere con un nuovo metodo rispetto ai nostri tempi razionalisti: il “Venite e vedrete” di Gesù.

Mikel Azurmendi ha seguito l’origine del suo stupore, e non ha smesso di incontrare persone del tutto normali nella cui vita traspare la straordinarietà: Macario (lo chauffeur ingegnere di Madrid), Chules (l’avvocato di Bocatas a Madrid), Ferran e Jordi (direttori di scuole in Catalogna), famiglie con figli che accolgono o adottano bambini disabili o i cui genitori biologici stanno vivendo un momento negativo…

No ai “cristiani decaffeinati”

Vedendo una dopo l’altra queste vite di questo mondo che permettono già di intravedere il prossimo, Azurmendi, che ha cambiato completamente il suo modo di vedere la vita, alla fine delle sue pagine ci avverte dicendo: “Molti di coloro che si dicono ancora cristiani non donano gratis quello che hanno ricevuto gratuitamente. Al più, il loro cristianesimo è costituito dal fatto di credere semplicemente nel dogma e da un certo impegno nei confronti dei doveri morali. Credono che basti loro non fare del male a nessuno e rispettare i precetti rituali. Per questo, il loro stile di vita non risulta più attraente e ha portato alla diserzione dai sacramenti, allo svuotamento di chiese e seminari e a una miscredenza massiccia.

Sembrano professare un cristianesimo adattato allo stile di vita individualista e possessiva della società occidentale, uno stile che tende a disumanizzarsi sempre più a furia di non praticare ciò che il loro Dio consiglia loro: ‘Quello che hai non è mai solo tuo’. Non mostrano al mondo che la loro vita cresce e fa crescere, nessuno si aspetta da loro qualcosa di inaspettatamente gratuito, né sanno come migliorare il mondo creando più bellezza, bontà e verità”.

Come se si trattasse dell’antropologo innocente, Azurmendi raccoglie testimonianze che sono perle tra i membri di questa tribù cattolica in cui si è addentrato.

Nuovo popolo di Dio

Uno di loro, Ferran, dice:

“La Chiesa assomiglia a quelle colonne di rifugiati, di invalidi per via della guerra, che procedono insieme e si aiutano a camminare, alcuni con le stampelle, altri con una benda sugli occhi o sulla testa, si chiedono aiuto gli uni agli altri per guadare fiumi e salire colline, per non lasciare ciò che conta lungo il cammino, per prendersi cura gli uni dei figli degli altri. Camminando insieme e riempiendo il cammino particolare di uno della condizione dell’altro. Siamo tutti lì: donna e figli, allievi, amici, professori, sacerdoti, gente del gruppo adulto [consacrati], ragazzi che fanno scuola di comunità e quelli che non lo fanno… In questo modo il cammino è un percorso allegro che si fa condividendo un destino comune: giungere insieme nella stessa patria. Un cammino in cui si vive di e per misericordia (…) Il cammino che percorriamo, la comunione tra noi, coincide con il rapporto con lui”.

In tempi di pandemia, risulta stimolante e portatore di speranza leggere come la storia del popolo di Dio si continui a scrivere ai giorni nostri, e che non abbiamo niente da invidiare rispetto a ciò che ci viene raccontato e si vive nel Vangelo.

Ne El abrazo, constatiamo che gli Atti degli Apostoli perdurano, pasquali, nel cuore della post-modernità.

Intervista per il Meeting di Rimini:

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