Queste sono parole che l’ancora cardinal Ratzinger – all’epoca relativamente giovane: aveva 64 anni – pronunciava il 9 settembre del 1990 alla vigilia dell’ottantesimo compleanno del cardinale Franz Hengsbach. Quello sarebbe stato l’ultimo anniversario del grande porporato tedesco, che avrebbe salutato la scena del Secolo Breve (in tutti i sensi) tra i fuochi del San Giovanni del 1991 (il 24 giugno).
Oggi saranno in pochi a ricordarsi del cardinal Franz Hengsbach, ma prima che sorgesse l’astro di Ratzinger era stato lui il maggiore e il più in vista tra i Vescovi cattolici tedeschi: dopo aver attraversato entrambi i conflitti mondiali, che di tante macerie avrebbero ricoperto la Germania, e dopo aver giganteggiato nell’apostolato mentre il Paese era squarciato in due dal Muro e dalla Guerra Fredda (anni in cui fu insignito di due alte onorificenze statali dalla Bundesrepublik) egli sarebbe stato il primo presidente della Commissione delle Conferenze Episcopali della Comunità Europea (COMECE). Insomma, ce lo saremo anche dimenticato ma l’uomo che nel suo ultimo compleanno Joseph Ratzinger definì “portavoce della riconciliazione” era stato un personaggio monumentale. Vale la pena riportare anzitutto un tratto della sua personalità ecclesiastica, che è pure un aneddoto:
Del carbonfossile incastonato nell’episcopale! Il minerale chimicamente più simile al diamante, eppure apparentemente il più dissimile: quale grande e nondimeno agile allegoria dell’Evangelo del Crocifisso-Risorto! Era il 1990, allora, e con la Germania tutta l’Europa e l’intero “mondo” (atlantico) si rasserenavano al fragore della Cortina di Ferro che cadeva. I timonieri della Chiesa in quella tempestosa stagione avevano tutte le ragioni di guardarsi come dei sopravvissuti, o meglio come dei veterani, ma le considerazioni di Ratzinger sembrano essere sbalzate non a partire dalla morte e dalla guerra, bensì da una «pace che il mondo irride, / ma che rapir non può» (Manzoni):
Oggi che Benedetto XVI compie 94 anni ci sembra di poter “rispedire al mittente” – ovvero rifletterle sulla sua vita – queste considerazioni: Ratzinger non è mai stato quel che si dice un “uomo di azione”, eppure nient’altro che la sollecitudine di Gesù Cristo per gli uomini anima ancora la sua vitalità in quest’ultimo tratto del suo pellegrinaggio terreno, mentre – parole sue – resta «nel recinto di Pietro» «orando et patiendo» (“pregando e soffrendo”: parole profetiche di quel febbraio 2013).
Sono (almeno apparentemente) remoti i tempi dei dopoguerra, e purtroppo anche della Caduta del Muro conserviamo una memoria meno fresca e grata: di tutto questo, però, e di molto altro ancora, vediamo l’ardente e orante ricordo nel lumicino del Papa Emerito, che quanto più si attenua tanto meno sembra sul punto di spegnersi.
Il futuro Benedetto XVI ragionava proprio, in quell’omelia giubilare, dell’attenzione e dell’intenzione che fanno di un uomo un pescatore di uomini, e di un cristiano un vescovo:
Il pontificale si celebrava ad Essen, quel 9 settembre 1990, ossia nel secondo centro della “provincia” del Ruhr dopo Dortmund (il quarto del Land renano-westfalico): territorio al
Una vita spesa “sul fronte occidentale”, dunque, ma non solo: quando Hengsbach fu fatto vescovo – anzi “Erster Ruhrbischof” (primo “Vescovo della Ruhr”) (da Pio XII)
Anche la vita di Benedetto XVI ci appare spesa su più fronti, verso i quali da decenni Ratzinger si è sforzato di essere egli stesso “portavoce della riconciliazione”: sul “fronte orientale” egli si è sforzato di canalizzare le energie riformiste della grande stagione conciliare scongiurando che tracimassero in pigli rivoluzionari; sul “fronte occidentale”, viceversa, ha cercato di rendere giustizia alle ragioni dei “tradizionalisti”, per quanto spesso viziate da orizzonti reazionari. Non solo: nella stessa polarizzazione ecclesiale che ha accompagnato il suo pontificato fino alle dimissioni (e oltre) Benedetto XVI ha speso ogni energia, perfino con interventi pubblici, per comporre i movimenti eversivi (non lesinando amorevoli ma fermi richiami anche ad amici di vecchia data).
Ratzinger riconobbe in Hengsbach l’amore per l’Europa e per la sua identità, ma al contempo il rifiuto – genuinamente cattolico – di richiudersi «in un augusto eurocentrismo» (ivi, 828): tale sfida
Quasi vent’anni prima del Documento di Aparecida, e mentre la Centesimus Annus era ancora nel cassetto di Giovanni Paolo II, Ratzinger distillava il succo della Dottrina Sociale della Chiesa in merito a fondatezza della proprietà privata e a destinazione universale dei beni. Lo stesso si può dire, analogamente, anche per i beni immateriali come il genio spirituale e teologico – per cui da sempre Ratzinger è riconosciuto una punta di diamante della cristianità –: essi sono condivisi a vantaggio di tutta la Chiesa e dello stesso mondo in quella grande “banca mistica” che è la comunione dei santi.
Mentre festeggiamo i 94 anni compiuti di pellegrinaggio terreno di Ratzinger/Benedetto XVI siamo invitati non a intessere panegirici, bensì a “tenere lo sguardo fisso” sul Riconciliatore di cui la Grazia di Dio ha reso portavoce e ministri i due presuli tedeschi e – secondo modalità e gradi distinti – tutti noi.
Le opere belle della Chiesa sono riflesso e testimonianza della gloria di Cristo: lo spirito e gli scritti di Ratzinger/Benedetto XVI restano tra le grazie maggiori che la cristianità abbia ricevuto nei secoli XX e XXI, e mentre il Papa Emerito attende al Mater Ecclesiæ – un po’ il suo Monte Nebo – l’incontro definitivo col Signore – noi proseguiamo con l’amicizia dei suoi insegnamenti e del suo esempio il cammino verso la Terra Promessa. Che è il Regno di Dio e che noi attendiamo fiduciosi e operosi.