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Card. Cantalamessa: “Gesù di Nazareth: una persona”

Father Raniero Cantalamessa speaks during the Passion of Christ Mass inside St. Peter’s Basilica, at the Vatican.

© CATHOLIC PRESS PHOTO

padre Raniero Cantalamessa - pubblicato il 26/03/21

Quarta predica della Quaresima del 2021

Gli Atti degli Apostoli narrano il seguente episodio. All’arrivo del re Agrippa a Cesarea, il governatore Festo gli presenta il caso di Paolo tenuto in custodia presso di lui, in attesa del processo. Riassume il caso al re con queste parole: “Quelli che lo incolpavano […] avevano contro di lui alcune questioni relative alla loro religione e a un certo Gesú, morto, che Paolo sosteneva essere vivo” (At 25, 18-19). In questo dettaglio, in apparenza così secondario, è riassunta la storia dei venti secoli seguiti a quel momento. Tutto gira ancora intorno a “un certo Gesú” che il mondo ritiene morto e la Chiesa proclama essere vivo.
È quello che ci proponiamo di approfondire in questa ultima meditazione, cioè che Gesú di Nazareth è vivo! Non è una memoria del passato; non è solo un personaggio, ma una persona. Vive “secondo lo Spirito”, certo, ma questo è un modo di vivere più forte di quello “secondo la carne” perché gli permette di vivere dentro di noi, non fuori o accanto.
Nella nostra rivisitazione del dogma, siamo giunti al nodo che unisce i due capi. Gesú “vero uomo” e Gesú “vero Dio” – dicevo all’inizio – sono come i due lati di un triangolo, il cui vertice è Gesú “una persona”. Ricordiamo per sommi capi come si è formato il dogma dell’unità di persona di Cristo. La formula “una persona” applicata a Cristo risale a Tertulliano , ma occorsero oltre due secoli di riflessione per capire cosa essa significava di fatto e come potesse conciliarsi con l’affermazione che Gesù era vero uomo e vero Dio, cioè “di due nature”.
Una tappa fondamentale fu il concilio di Efeso del 431, in cui venne definito il titolo di Maria Theotokos, Genitrice di Dio. Se Maria può essere chiamata “Madre di Dio”, pur avendo dato alla luce solo la natura umana di Gesú, vuol dire che in lui umanità e divinità formano una sola persona. Il traguardo definitivo fu però raggiunto solo nel concilio di Calcedonia del 451, con la formula di cui riportiamo di nuovo la parte relativa all’unità di Cristo:

Seguendo i santi Padri, all’unanimità noi insegniamo a confessare
un solo e medesimo Figlio: il Signore nostro Gesù Cristo, […],
senza che venga meno la proprietà di ciascuna natura, e concorrendo a formare una sola persona e ipostasi .

Se per la piena ricezione della definizione di Nicea occorse un secolo, per la completa ricezione di quest’altra definizione occorsero tutti i secoli successivi, fino ai nostri giorni. Solo, infatti, grazie al recente clima di dialogo ecumenico si è potuta ristabilire la comunione tra la Chiesa Ortodossa e le chiese cosiddette Nestoriane e Monofisite dell’Oriente cristiano. Si è preso atto che nella maggioranza dei casi si trattava di una diversità di terminologia, non di dottrina. Tutto dipendeva dal significato diverso che si dava dei due termini di “natura” e di “persona” o “ipostasi”.

Dall’aggettivo “una” al sostantivo “persona”

Messo al sicuro il suo contenuto ontologico e oggettivo, anche qui, per rivitalizzare il dogma, dobbiamo ora mettere in luce la sua dimensione soggettiva ed esistenziale. San Gregorio Magno diceva che la Scrittura “cresce con coloro che la leggono” (cum legentibus crescit) . Dobbiamo dire la stessa cosa del dogma. Esso è “una struttura aperta”: cresce e si arricchisce, nella misura in cui la Chiesa, guidata dallo Spirito Santo, si trova a vivere nuove problematiche e in nuove culture.
Lo aveva detto, con singolare preveggenza, sant’Ireneo verso la fine del II secolo. La verità rivelata, scriveva il santo, è “come un liquore prezioso contenuto in un vaso di valore. Per opera dello Spirito Santo, essa [la verità] ringiovanisce sempre e fa ringiovanire anche il vaso che la contiene” . La Chiesa è in grado di leggere la Scrittura e il dogma in modo sempre nuovo, perché essa stessa è resa sempre nuova dallo Spirito Santo!
Ecco il grande e semplicissimo segreto che spiega la perenne giovinezza della Tradizione e, quindi, dei dogmi che ne sono l’espressione più alta. Il grande storico della Tradizione cristiana, Jaroslav Pelikan, ha scritto che “la Tradizione è la viva fede dei morti” (cioè la fede dei Padri che continua a vivere); “il Tradizionalismo è la morta fede dei viventi”.
Anche il dogma dell’unica persona di Cristo è una “ struttura aperta “, cioè capace di parlarci oggi, di rispondere ai bisogni nuovi della fede, che non sono gli stessi del quinto secolo. Oggi nessuno nega che Cristo sia “ una persona “. Ci sono alcuni – abbiamo visto in precedenza –che negano che sia una persona “divina“, preferendo dire che è una persona “umana“ in cui Dio abita, o opera, in modo unico ed eccelso. Ma l’unità stessa della persona di Cristo, ripeto, non è contestata da alcuno.
La cosa oggi più importante, circa il dogma di Cristo ”una persona“, non è tanto l’aggettivo “una“, quanto il sostantivo “persona”. Non tanto il fatto che sia “uno e identico a se stesso” (unus et idem), ma che sia “persona”. Questo significa scoprire e proclamare che Gesù Cristo non è un’idea, un problema storico e neppure soltanto un personaggio, ma una persona e una persona vivente! Questo infatti è ciò che è carente e di cui abbiamo estremo bisogno per non lasciare che il cristianesimo si riduca a ideologia, o semplicemente a teologia.
Ci siamo proposti di rivitalizzare il dogma, ripartendo dalla sua base biblica. Ci rivolgiamo subito perciò alla Scrittura. Partiamo dalla pagina del Nuovo Testamento che ci parla del più celebre “incontro personale” con il Risorto che mai sia accaduto sulla faccia della terra: quello dell’apostolo Paolo. “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?” “Chi sei tu?” “Io sono Gesú il Nazareno!” (cf. At 9,4-5). Che folgorazione! Dopo venti secoli, quella luce ancora illumina la Chiesa e il mondo. Ma ascoltiamo come egli stesso descrive questo incontro:

“Quello che poteva essere per me un guadagno [essere circonciso, della stirpe d’Israele, fariseo, irreprensibile], l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui, non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede. E questo perché io possa conoscere lui“ (Fil 3,7-10).

È quasi con rossore che oso accostare all’esperienza fiammeggiante di Paolo la mia piccolissima esperienza. Ma è proprio Paolo che, con il suo racconto, incoraggia a fare altrettanto, cioè a dare testimonianza della grazia di Dio. Studiando e insegnando cristologia, io avevo fatto diverse ricerche sull’origine del concetto di “persona” in teologia, sulle sue definizioni e diverse interpretazioni. Avevo conosciuto le interminabili discussioni intorno all’unica persona o ipostasi di Cristo nel periodo bizantino, gli sviluppi moderni sulla dimensione psicologica della persona, con il conseguente problema dell’ “Io“ di Cristo, così dibattuto quando studiavo teologia. In un certo senso, conoscevo tutto sulla persona di Gesù, ma non conoscevo Gesù in persona!
Fu proprio quella parola di Paolo che mi aiutò a capire la differenza. Soprattutto la frase: “perché io possa conoscere lui”. Mi sembrava che quel semplice pronome “lui” (auton) contenesse su Gesù più verità che interi trattati di cristologia. “Lui“, vuol dire Gesù Cristo “ in carne ed ossa“. Era come incontrare una persona dal vivo, dopo avere conosciuto per anni la sua fotografia. Mi accorsi che io conoscevo libri su Gesù, dottrine, eresie su Gesù, concetti su Gesù, ma non conoscevo lui, persona vivente e presente. Per lo meno non lo conoscevo così quando mi accostavo a lui attraverso lo studio della storia e della teologia. Avevo avuto, fino ad allora, una conoscenza impersonale della persona di Cristo. Una contraddizione e un paradosso, ma ahimè, quanto frequente!

Persona è essere-in-relazione

Riflettendo sul concetto di persona nell’ambito della Trinità, sant’Agostino e dopo di lui san Tommaso d’Aquino, sono arrivati alla conclusione che “persona”, in Dio, significa relazione. Il Padre è tale per la sua relazione al Figlio: tutto il suo essere consiste in questa relazione, come il Figlio è tale per la sua relazione al Padre. Il pensiero moderno ha confermato questa intuizione. “La vera personalità – ha scritto il filosofo Hegel – consiste nel recuperare se stesso immergendosi nell’altro” . La persona è persona nell’atto in cui si apre a un “tu” e in questo confronto acquista coscienza di sé. Essere persona è “ essere-in-relazione “.
Questo vale in modo eminente delle persone divine della Trinità, che sono “ pure relazioni “, o come si dice in teologia “relazioni sussistenti”; ma vale anche di ogni persona nell’ambito creato. La persona non si conosce nella sua realtà, se non entrando in “relazione” con essa. Ecco perché non si può conoscere Gesù come persona, se non entrando in un rapporto personale, da io a tu, con lui. “La fede non termina agli enunciati, ma alle cose“, ha detto san Tommaso d’Aquino . Noi non possiamo accontentarci di credere nella formula ”una persona”; dobbiamo raggiungere la persona stessa e, mediante la fede e la preghiera, “toccarla”.
Dobbiamo porci seriamente una domanda: Gesù è per me una persona, o solamente un personaggio? C’è una grande differenza tra le due cose. Il personaggio – tipo Giulio Cesare, Leonardo da Vinci, Napoleone – è uno di cui si può parlare e scrivere quanto si vuole, ma al quale e con il quale è impossibile parlare. Purtroppo, per la grande maggioranza dei cristiani Gesù è un personaggio, non una persona. È l’oggetto di un insieme di dogmi, dottrine o eresie; uno di cui celebriamo la memoria nella liturgia, che crediamo realmente presente nell’Eucaristia, tutto quello che si vuole. Ma se rimaniamo sul piano della fede oggettiva, senza sviluppare una relazione esistenziale con lui, egli rimane esterno a noi, ci tocca la mente, ma non riscalda il cuore. Rimane, nonostante tutto, nel passato; tra noi e lui si interpongono, inconsciamente, venti secoli di distanza. Sullo sfondo di tutto questo, si comprende il senso e l’importanza di quell’invito che papa Francesco ha posto all’inizio della sua esortazione apostolica Evangelii gaudium:

“Invito ogni cristiano, in qualsiasi luogo e situazione si trovi, a rinnovare oggi stesso il suo incontro personale con Gesù Cristo o, almeno, a prendere la decisione di lasciarsi incontrare da Lui, di cercarlo ogni giorno senza sosta. Non c’è motivo per cui qualcuno possa pensare che questo invito non è per lui” (EG, 3).

Nella vita della maggioranza delle persone c’è un evento che divide la vita in due parti, creando un prima e un dopo. Per gli sposati, questo è il matrimonio ed essi dividono la propria vita così: “prima di sposarmi” e “dopo sposato”; per i vescovi e i sacerdoti è la consacrazione episcopale o l’ordinazione sacerdotale; per i consacrati è la professione religiosa. Dal punto di vista spirituale c’è un solo evento che crea veramente e per tutti un prima e un dopo. La vita di ogni persona, si divide esattamente come si divide la storia universale: “avanti Cristo” e “dopo Cristo”, prima dell’incontro personale con Cristo e in seguito ad esso.

Questo incontro noi lo possiamo intravedere, sentirne parlare, desiderarlo, ma per sperimentarlo c’è un solo mezzo. Non è cosa che si può ottenere leggendo libri o ascoltando una predica. Solo per opera dello Spirito Santo! Sappiamo perciò a chi dobbiamo chiederlo e sappiamo che lui non aspetta altro che glielo chiediamo… Per tesciamus da Patre, noscamus atque Filium: “Fa’ che per mezzo tuo conosciamo il Padre e conosciamo anche il Figlio”. Che lo conosciamo di questa conoscenza intima e personale che cambia la vita.

Cristo, persona “divina”

Ma dobbiamo fare un passo avanti. Se ci fermassimo qui, perderemmo la rivelazione più consolante racchiusa nel dogma di Cristo “persona”, e persona “divina”. Non saremo mai abbastanza grati alla Chiesa antica per aver lottato, qualche volta letteralmente fino al sangue, per mantenere la verità che Cristo è “una sola persona” e che questa persona non è altri che il Figlio eterno di Dio, una delle tre persone della Trinità. Cerchiamo di capire perché.

L’apporto più fecondo e duraturo di sant’Agostino in teologia è l’avere fondato il dogma della Trinità sull’affermazione giovannea “Dio è amore” (1 Gv 4,8). Ogni amore implica un amante, un amato e un amore che li unisce ed è così che egli definisce le tre divine persone: il Padre è colui che ama, il Figlio l’amato e lo Spirito Santo, l’amore che li unisce .
Non esiste amore che non sia amore di qualcuno o di qualcosa, come non si dà conoscenza che non sia conoscenza di qualcosa. Non esiste un amore “a vuoto”, senza oggetto. Ci domandiamo allora: chi ama Dio, per essere definito amore? L’uomo? Ma allora è amore solo da qualche centinaio di milioni di anni. L’universo? Ma allora è amore solo da qualche decina di miliardi di anni. E prima chi amava Dio per essere l’amore? Ed ecco la risposta della rivelazione biblica, esplicitata dalla Chiesa. Dio è amore da sempre, ab aeterno, perché prima ancora che esistesse un oggetto fuori di sé da amare, aveva in se stesso il Verbo, il Figlio che amava con amore infinito, cioè “nello Spirito Santo”.
Questo non spiega “come” l’unità possa essere contemporaneamente trinità (questo è un mistero inconoscibile da noi perché avviene solo in Dio), ma ci basta almeno per intuire “perché”, in Dio, la pluralità non contraddice l’unità. È perché “Dio è amore”! Un Dio che fosse pura conoscenza o pura legge, o puro potere, non avrebbe certo bisogno di essere trino (questo anzi complicherebbe le cose); ma un Dio che è anzitutto amore sì, perché meno che tra due, non ci può essere amore.

Il mistero più grande e più inaccessibile alla mente umana non è, secondo me, che Dio è uno e trino, ma è che Dio è amore. ”Occorre – ha scritto de Lubac – che il mondo lo sappia: la rivelazione di Dio come amore sconvolge tutto quello che esso aveva concepito in precedenza della divinità” . È verissimo, ma purtroppo siamo ancora lontani dall’avere tratto tutte le conseguenze da questa rivoluzione. Lo dimostra il fatto che l’immagine di Dio che domina nell’inconscio umano è quella dell’essere assoluto, non dell’amore assoluto; un Dio che è essenzialmente onnisciente, onnipotente e soprattutto giusto. L’amore e la misericordia sono visti come un correttivo che modera la giustizia. Sono l’esponente, non la base.
Noi moderni proclamiamo che la persona è il valore supremo da rispettare in ogni campo, il fondamento ultimo della dignità umana. Da dove deriva questo concetto moderno di persona, lo si capisce però solo partendo dalla Trinità. Lo ha messo bene in luce il teologo ortodosso Johannes Zizioulas, mostrando la fecondità e l’arricchimento reciproco che si ottiene nel dialogo tra teologia latina e teologia greca sulla Trinità. Egli dimostra, in vari suoi scritti, come il concetto moderno di persona è figlio diretto della dottrina delle Trinità e spiega in che senso.

“L’amore è una categoria ontologica che consiste nel dare spazio all’altra persona di esistere come altro e acquisire l’esistenza nel e attraverso l’altro . E’ un atteggiamento kenotico, un dare se stesso […]. Questo è ciò che avviene nella Trinità dove il Padre ama dando tutto se stesso al Figlio e facendolo esistere come Figlio. […] Questo, quindi, è ciò che significa essere una persona umana alla luce della teologia Trinitaria. Significa un modo di essere in cui noi acquisiamo le nostre identità non distanziandoci dagli altri ma in comunione con essi nel e attraverso un amore che “non cerca il proprio interesse” (1 Cor 13,5) ma è pronto a sacrificare il suo vero essere per permettere all’altro di essere ed essere altro. E’ esattamente il modo di essere che si trova nella Croce di Cristo dove l’amore divino rivela pienamente se stesso nella nostra esistenza storica”.

Cristo, essendo persona divina, trinitaria, ha dunque con noi una relazione d’amore che fonda la nostra libertà (cf. Gal 5,1). “Mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20): si potrebbero passare ore intere a ripetere dentro di sé questa parola, senza finire mai di stupirsi. Lui, Dio, ha amato me, creatura da nulla e ingrata! Ha dato se stesso – la sua vita, il suo sangue – per me. Singolarmente per me! È un abisso nel quale ci si perde.
Il nostro “rapporto personale” con Cristo è dunque essenzialmente un rapporto di amore. Consiste nell’essere amati da Cristo e amare Cristo. Questo vale per tutti, ma assume un significato particolare per i pastori della Chiesa. Si ripete spesso (a partire dallo stesso sant’Agostino) che la roccia su cui Gesú promette di fondare la sua Chiesa è la fede di Pietro, l’averlo proclamato “Messia e Figlio del Dio vivente” (Mt 16, 16). Si trascura, mi pare, quello che Gesú dice al momento del conferimento di fatto del primato a Pietro: “Simone, figlio di Giovanni, ami tu? …Pasci le mie pecore!” (cf. Gv 21, 15-16). L’ufficio del pastore trae la sua forza segreta dall’amore per Cristo. L’amore, non meno che la fede, lo rende una cosa sola con la Roccia che è Cristo.

“Chi ci separerà dall’amore di Cristo?”

Termino mettendo in luce la conseguenza di tutto ciò per la nostra vita, in un momento di grande tribolazione per tutta l’umanità come è il presente. Ce lo facciamo spiegare, anche questa volta, dall’apostolo Paolo. Nella Lettera ai Romani egli scrive:
Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? (Rom 8, 35)
Non si tratta di una numerazione astratta e generica. I pericoli e le tribolazioni che egli enumera sono le cose che, di fatto, egli ha sperimentato nella sua vita. Le descrive dettagliatamente nella Seconda Lettera ai Corinzi, dove alle prove qui elencate aggiunge quella che più lo faceva soffrire, e cioè l’opposizione ostinata da parte di alcuni dei suoi (cf 2 Cor 11, 23 ss). L’Apostolo, in altre parole, passa in rassegna nella sua mente tutte le prove attraversate, constata che nessuna di esse è così forte da reggere al confronto con il pensiero dell’amore di Cristo, e conclude perciò trionfalmente: “In tutte queste cose, noi siamo più che vincitori, per virtù di colui che ci ha amati” (Rom 8,37).

L’Apostolo invita, tacitamente, ciascuno di noi a fare lo stesso. Ci suggerisce un metodo di guarigione interiore basato sull’amore. Ci invita a portare a galla le angosce che si annidano nel nostro cuore, le tristezze, le paure, i complessi, quel difetto fisico o morale che non ci fa accettare serenamente noi stessi, quel ricordo penoso e umiliante, quel torto subito, la sorda opposizione da parte di qualcuno… Esporre tutto ciò alla luce del pensiero che Dio mi ama, e troncare ogni pensiero negativo, dicendo a noi stessi, come l’Apostolo: “Se Dio è con noi, chi sarà contro di noi?” (Rom 8,31).

Dalla sua vita personale, l’Apostolo solleva, subito dopo, lo sguardo sul mondo che lo circonda e sull’esistenza umana in generale:

Né morte né vita, né angeli né principati; né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore (Rm 8, 38-39).

Non si tratta anche qui di un elenco astratto. Egli osserva il “suo” mondo, con le potenze che lo rendevano minaccioso: la morte con il suo mistero, la vita presente con la sua incertezza, le potenze astrali o quelle infernali che incutevano tanto terrore all’uomo antico. Siamo invitati, ancora una volta, a fare lo stesso: a guardare con occhi di fede il mondo che ci circonda e che ci fa ancora più paura ora che l’uomo ha acquisito il potere di sconvolgerlo con le sue armi e le sue manipolazioni. Quello che Paolo chiama l’“altezza” e la “profondità”, sono per noi – nell’accresciuta conoscenza delle dimensioni del cosmo – l’infinitamente grande sopra di noi e l’infinitamente piccolo sotto di noi. In questo momento, quell’infinitamente piccolo che è il corona virus che da un anno tiene in ginocchio l’intera umanità.

Fra una settimana sarà il Venerdì Santo e subito dopo la Domenica di risurrezione. Risorgendo, Gesú non è tornato alla vita di prima come Lazzaro, ma a una vita migliore, libera da ogni affanno. Speriamo che sia così anche per noi. Che dal sepolcro in cui ci ha tenuti rinchiusi per un anno la pandemia, il mondo – come ci va ripetendo continuamente il Santo Padre – esca migliore, non lo stesso di prima.

1.Tertulliano, Adversus Praxean, 27, 11.
2.Denzinger – Schonmetzer, Enchiridion Symbolorum, nr. 301-302.
3.S. Gregorio Magno, Moralia in Job, XX, 1.
4.S. Ireneo, Adversus Haereses, III, 24,1.
5.The Christian Tradition: A History of the Development of Doctrine, 5 vols. (1973–1990). University of Chicago Press.
6.S. Agostino, De Trinitate, V,5,6.
7.F. Hegel, Lezioni di filosofia della religione.
8.S. Tommaso d’Aquino, S.Th., II-IIae, q.1, a.2, ad 2.
9.S. Agostino, De Trinitate, VI, 5, 7; IX, 22.
10.H. de Lubac, Histoire et Esprit, Aubier, Parigi 1950, cap.5.
11.J. Zizioulas, L’idea di persona umana deriva dalla Trinità: Conferenza tenuta a Milano nel 2015;

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