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Il segreto per superare l’autocritica malsana

KOBIETA

Fa Barboza/Unsplash | CC0

padre Michael Rennier - pubblicato il 09/03/21

Uno sguardo onesto nei confronti di noi stessi è diverso dal non amarci come fa Dio

Da qualche parte, relegato sull’hard drive di un computer, c’è un romanzo che ho scritto una quindicina di anni fa. Non mi dispiacerebbe poi tanto se andasse perduto per sempre, ma da un altro punto di vista sarebbe una perdita tremenda. Sì, la trama è terribile, non è un buon romanzo, ma è il mio.

Nascosta nella sua scatola digitale ad accumulare polvere, la sua esistenza è simile al fatto di tirar fuori un coltellino e incidere il mio nome sul tronco di un albero per dimostrare di essere stato qui. Ho vissuto. Ho scritto. Anche se mi vergogno a mostrarlo.

Il mio romanzo è il peggiore di tutti, ma il motivo per cui ne parlo è che quando ci penso sento una necessità schiacciante di criticare me stesso. Come posso aver scritto una cosa del genere? So scrivere? Se la gente sapesse che esiste, leggerebbe ancora i miei saggi?

Ho dovuto accettare queste domande e metterle in prospettiva. C’è una linea sottile tra il fatto di ammettere onestamente che il romanzo non è molto valido e il criticarmi costantemente, il che mi porta ad avere ansia e dubbi continui.

L’autocritica è una parte necessaria della conoscenza di noi stessi e dei nostri limiti. Nessuno vuole ingannarsi su quello in cui è valido e quello in cui non lo è, ma è insolito che l’autocritica diventi vergognosa ed esagerata. Ci paralizza. E se quel romanzo fallito avesse dato inizio a un ciclo interminabile di vergogna in grado di convincermi che non sarei mai stato uno scrittore accettabile?

Quando la critica ci paralizza

Vedo l’autocritica impossessarsi dei miei figli. Arrivano a credere a una certa idea su se stessi, di non essere bravi in matematica o di non saper suonare il piano, e questo è un sabotaggio nei propri confronti. Come padre, è frustrante perché so che l’idea a cui sono arrivati su se stessi è falsa. Lo vedo molto chiaramente, e tuttavia sono come loro.

Molti altri che conosco fanno lo stesso, perché interiorizziamo narrative critiche su noi stessi che distorcono la nostra autocomprensione. Ci siamo detti talmente tante volte “Non vai bene in questo” o “Non puoi fare quello” che ora ci crediamo con un fervore quasi religioso. È un processo che può terminare solo nella paralisi. Se non si riesce a fare niente bene, è meglio non provare a far nulla.

È esattamente quello che l’autocritica fuori controllo ci spinge a ottenere: assolutamente nulla. La vera vergogna è che il copione costante che si sviluppa nella nostra mente e che indica tutte le nostre mancanze e i nostri difetti è poco fantasioso. Assume la peggiore interpretazione possibile di un mondo in cui nulla funziona del tutto, ogni partita a scacchi finisce in parità, ogni sforzo in un vergognoso fallimento. Non resta emozione, né sogni o ambizioni. È noioso.

È anche sicuro. Curiosamente, credo che sia per questo che diventiamo dipendenti dall’autocritica. A volte è quasi piacevole. Ci fa soffrire, ma ci protegge anche dalla disillusione. L’autocritica è limitante, ma comoda. Mi chiedo quasi se abbiamo paura, paura di lottare, paura di celebrare le nostre vittorie.

Misericordia con se stessi

Ricordo la prima volta che ho scritto un saggio e l’ho inviato a un editore. Ero convinto che avrebbe letto la prima riga e avrebbe riso per poi cestinare il tutto. Sarebbe stato l’inizio e al contempo la fine della mia carriera di scrittore. Ma mi sono fatto forza e ho rischiato il fallimento. E sì, caro lettore, ho fallito. Quel saggio non è stato pubblicato.

Poi ne ho scritto un altro, che è stato pubblicato. Ormai ne ho pubblicati centinaia, ma ogni volta che clicco sul tasto “Invio” della posta elettronica per mandarne uno a un editore sono convinto che verrà rifiutato con decisione, o che i lettori rideranno di me o otterrò commenti sgradevoli come risposta.

Queste cose a volte succedono, ma quello che ho imparato è che la maggior parte della reazione negativa anticipata è nella mia testa, e gli editori e i lettori sono indefettibilmente generosi e gentili. Questa bontà mi ha rivelato il segreto per superare l’autocritica malsana: pensare a me stesso nel modo in cui gli altri pensano a me. Per qualche ragione, siamo più duri con noi stessi che con gli altri. Ci prendiamo cura delle altre persone meglio di come curiamo noi stessi. Siamo più inclini a estendere la misericordia e il perdono agli altri.

Rifiutare di concedersi la misericordia è un errore. No, non siete perfetti. Neanch’io. Siate comunque misericordiosi.

Siate compassionevoli. Se è tutto quello che potete fare, costringetevi a capire che ci sono persone che vi amano molto, e un Dio che vi ama moltissimo. Chi siamo noi a dire a Dio che sbaglia? Chi siamo noi per dire a chiunque ci ami che non abbiamo alcun talento e che sta prendendo un abbaglio?

E allora, siate misericordiosi nei confronti di voi stessi, e abbracciate vittoria e sconfitta. L’autocritica costante ci trattiene. È il momento di lasciarcela alle spalle e di gettarci nella vita con entusiasmo. Magari un giorno saremo abbastanza coraggiosi da scrivere un nuovo romanzo.

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