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Quei rifugiati iracheni che da tutto il mondo seguono il viaggio del Papa

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© I.MEDIA/Hugues Lefèvre

La piana di Ninive vista dal monastero Rabban Hormizd

i.Media per Aleteia - pubblicato il 05/03/21

Un barlume di speranza, riconoscenza, un invito all’unità… Ecco cosa sperano i cristiani iracheni rifugiati in giro per il mondo e rintracciati da i-Media. Per poter un giorno tornare a calcare il suolo patrio, essi dicono oggi il loro auspicio di veder arrivare una certa stabilità politica ed economica nel Paese.

Quando ha appreso la notizia del viaggio del papa in Iraq, padre Asmaroo, cappellano della piccola comunità caldea in Svizzera, non ha saputo trattenere la sua profonda gioia: 

Eravamo tutti sorpresi, felicissimi! Alcuni si sono chiesti se non fosse troppo tardi e se servisse a qualcosa, ma credo che la maggior parte di noi viva il viaggio del papa come un segno di speranza. 

Per festeggiare questo evento storico, egli ha quindi organizzato per il prossimo 6 marzo una messa in Svizzera con alcune (per via del Covid) famiglie caldee. 

Dopo la delusione provocata dall’annullamento della visita di Giovanni Paolo II nel 1999, bisogna dire che la notizia era di quelle grosse. Così si rallegra il prete iracheno dall’accento cantillante: 

Noi cristiani orientali abbiamo talvolta l’impressione di essere stati dimenticati dall’Occidente, e talvolta – oso dirlo – anche dal capo della Chiesa cattolica. Il fatto che questa visita non abbia potuto essere realizzata fino a oggi ci aveva naturalmente delusi. Al momento tutto il Paese preso dal fervore per favorire il buon esito del viaggio. 

Installato in Francia con la moglie e i due figli fin da quando ha lasciato il Paese nel 2014, all’arrivo dell’Isis, Toma Kako non è meno entusiasta: «Questa visita restituirà speranza al popolo iracheno, che tanto ha sofferto». La voce vibra dell’emozione di immaginare il pontefice camminare sulla terra della propria infanzia. Con la comunità cristiana di Sarcelles, dove risiede, la piccola famiglia vicina all’Œuvre d’Orient conta di seguire con attenzione ognuno degli spostamenti del pontefice. 

Una visita di pace, non politica 

In Europa o nel Vicino Oriente, i rifugiati che hanno fuggito il loro Paese – nel 2003 o per l’arrivo dell’Isis nel 2014 – si tengono cauti in merito ai frutti che il viaggio potrebbe portare sul piano politico e di sicurezza: «È una visita storica che va anzitutto nel senso della pace, lungi dall’essere una visita strategica o politica», dice Yuap, iracheno rifugiato in Libano dal 2014. Per questo giovane di soli 24 anni, il viaggio avrà anzitutto l’effetto di dare «speranza alla sua generazione». Non è tanto per dire: la gioventù irachena ha infatti «vissuto tutta la vita in guerra», sottolinea tristemente Yuap. 

Certamente, «papa Francesco incoraggerà i cristiani del Medio Oriente, e in particolare quelli iracheni, a restare», immagina Toma Kako: 

I cristiani hanno sofferto troppo, bisogna che vivano la loro vocazione nel loro Paese. 

Egli pensa tuttavia che il viaggio non avrà incidenza sul ritorno di rifugiati dai quattro angoli del mondo: 

Ho la fortuna di essere in Francia – dice nella lingua di Molière – dopo aver sofferto in Iraq, e qui sono stato accolto benissimo. Con mia moglie ci siamo ormai integrati in Francia e abbiamo trovato lavoro. 

Da parte sua, dunque, non pensa di rientrare e fatica a immaginarsi che altri rifugiati integrati in Francia possano prendere una tale decisione. 

Bisogno di sicurezza 

«Pace, sicurezza»: ecco quel che manca a Toma e alla sua famiglia per sperare di poter un giorno tornare nel paese di Abramo. Quella stabilità vagheggiata dai rifugiati cristiani, nonché da gran parte dei cittadini iracheni in patria, il papa può dargliela? 

Nel cuore di Beirut Jean-Louis, un Libanese che da dieci anni si dedica ai rifugiati iracheni nel Paese dei Cedri, offre una lettura realista: 

Il papa darà un barlume di speranza, ma chi è partito non tornerà, perché manca una stabilità politica che permetta di vivere degnamente. 

E sottolinea pure lo scarto economico che esiste tra l’Iraq e i paesi in cui i rifugiati sono emigrati: «Dubito che questa visita apporti uno sviluppo economico». In Libano, che pure per alcuni rappresenta una tappa, questo operatore umanitario ha dunque visto “passare” numerose famiglie oggi partite per gli Stati Uniti o ancora per l’Australia. Coppie con bambini che in quei paesi si sono ben integrate, e che non rientreranno perché in Iraq non c’è analogo ambiente economico – almeno questa è la sua opinione. 

Il 33º viaggio del Vescovo di Roma non indurrà neppure Yuap a lasciare senza indugio il Libano, paese in cui ha trovato un lavoro, benché precario e in nero. «Ci sono troppe complicazioni per sperare una stabilità nel futuro prossimo», dice prima di aggiungere: «Prima aspetto che il papa rimetta i cristiani sulla carta dell’Iraq». 

Ritorni a lungo termine? 

Incoraggiamenti, riconoscimento, sostegno… Ecco quel che prima di tutto sperano di ricevere, gli Iracheni che da tanti anni si sono fusi in un nuovo contesto – in Europa o altrove. Malgrado tutto, padre Asmaroo sembra più ottimista dei suoi concittadini: 

Forse il viaggio del papa non cambierà le cose nel breve periodo, ma nel lungo penso di sì, e la nostra speranza è questa. 

Per lui, il viaggio potrebbe anche «giocare un ruolo importante per un ritorno concreto di alcune famiglie», anche se ciò non dovesse avvenire in un futuro prossimo. 

Quando incontro le famiglie caldee in Svizzera, discutiamo dei ricordi che abbiamo lasciato e dei valori del Paese: c’è nostalgia. Ciò detto… quando questo ritorno si concreterà? Non lo so. Ho in testa il modello del Libano e delle famiglie che sono partite. Alcune comincino a rientrare per recuperare un legame col loro paese di origine… Credo che, per quanto riguarda l’Iraq, ove si diano le condizioni, niente impedirebbe un ritorno delle famiglie laggiù, magari anche soltanto per le vacanze, dapprima, e per ricreare un legame. 

Da parte sua, il prete iracheno non ha mai veramente lasciato il suo Paese natale, poiché almeno una volta l’anno fa ritorno nel cuore dei suoi paesaggi rocciosi. Una boccata d’aria a cui non vuole rinunciare: «Non è la visita del papa – spiega – che motiverà gli Iracheni a rientrare, ma piuttosto saranno le sue conseguenze, i frutti di questa visita». 

Un viaggio per tutto il popolo iracheno 

Al di là della situazione dei rifugiati cristiani, il prete svizzero crede nella forza dei legami che il papa tesserà con le differenti autorità politiche e religiose: 

Penso che il colloquio con Al-Sistani sarà un grande incontro, il primo nel suo genere, perché è una personalità molto importante in Iraq e per l’insieme del mondo sciita. Speriamo dunque che questo incontro produrrà risultati concreti e visibili nel lungo periodo. Far stare le persone insieme è già l’inizio di una soluzione. 

Toma Kako si premura, da parte sua, di sottolineare la sfida che questa visita rappresenta per tutto il popolo iracheno, ben al di là della sfera cristiana: «Bisogna fare tutto il possibile perché questa visita riesca bene per tutti – sunniti, sciiti, cristiani… tutti». La sua speranza è che ogni cittadino possa ascoltare l’appello alla fraternità che il papa lancerà. Nel solco di mons. Pascal Gollnisch, direttore dell’Œuvre d’Orient, egli invita a guardare a questo viaggio come a un dono «per tutto l’Iraq». 

[traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio] 

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