Sono i “coltelli dello zucchero”: lavoratrici agricole sfruttate come raccoglitrici di canna da zucchero che per sopportare i ritmi e le condizioni oppressive di lavoro si lasciano asportare chirurgicamente l’utero: così avranno meno motivi per fermarsi. Questo è un caso eclatante di violenza contro le donne.Da dieci anni a questa parte circa quattordicimila “tagliatrici di canne” nell’India Occidentale hanno deciso di sottoporsi ad un intervento radicale: isterectomia.
Sono le lavoratrici agricole delle piantagioni di canna da zucchero; chi le assume le paga in anticipo e per ogni giorno di assenza si fa restituire 5 euro, se mancano solo loro, 8 se anche il marito deve accompagnarle in ospedale. Del resto che colpa ne ha il povero caporale se loro hanno l’impudenza di ammalarsi o essere indisposte?
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L’utero è di troppo
Essere dotate di utero, per queste donne delle classi sociali più basse, diventa un vero e proprio impiccio perché incide sul loro rendimento lavorativo e quindi sulla sussistenza della loro famiglia. Chi le assume esige un ritmo di lavoro intenso e senza flessioni. Una cosa che mal si concilia con la ciclicità femminile, che non va affatto d’accordo con i dolori o i disagi fisiologici legati al flusso mestruale.
Per questo molte donne, sotto la pressione dei datori di lavoro, – li chiamiamo così per ingenua convenzione all’occidentale ma sono più simili a padroni di schiavi-, decidono di sottoporsi ad un intervento automutilante. E se lo devono pure pagare: quello e i giorni di assenza necessari all’operazione e al recupero.
Sul canale culturale Arte.tv è uscito una settimana fa un video documentario su questo fenomeno, il segreto meglio taciuto dell’india rurale, commenta l’autore e regista del pezzo.
Un reportage disponibile dal 15/02/2021 fino al 07/02/2024 che alza il velo su questo disastro umano, su
un male invisibile che divora i corpi di migliaia di donne nel subcontinente. (Arte tv)
Se in Occidente il tasso di isterectomia è di due donne ogni mille, in India si arriva a diciassette su mille ma fino a trecentocinquanta per lo stato del Maharashtra, la “Sugar Belt” nella parte occidentale del paese.
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Esordisce così una delle donne intervistate, che parla mentre si piega a raccogliere le canne da lei tagliate che poi raccoglie in fasci sempre uguali. Lavora ininterrottamente, sempre allo stesso ritmo, con qualsiasi condizione fisica e metereologica. Non può che desolarci il pensiero che, se dalla terra e dai suoi capricci l’uomo di fatto ha sempre accettato siccità e improvvise tempeste, alle donne che vi faticano sopra per ore e giorni filati, non concede nulla.
La migrazione umana stagionale più grande al mondo
Affrontano lunghi viaggi sopra a carri trainati da trattori, “come fossero bestie”, continua la donna. Arrivano stanchissimi e il lavoro deve ancora cominciare. Siamo a inizio autunno quando prende avvio la migrazione umana più grande al mondo: un milione e mezzo di persone, spesso intere famiglie, si spostano per andare a lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero, nell’ovest del paese.
Non mi piace, dice, ma è la nostra condanna. Questo atteggiamento di resa fatalistica è identico in tutte le persone intervistate: non solo nelle donne ma anche nei padroni, persino nei medici artefici delle isterectomie: è di sicuro da imputare al tipo di società, composta di caste rigide e dai confini insuperabili. La nostra vita è questa, io non li costringo è così; sono loro che vogliono farsi operare; e i medici, cosa volete che facciano, devono pur lavorare anche loro. Queste alcune delle affermazioni del
Un’altra donna interpellata si dice addirittura certa che non si pentirà affatto della decisione una volta che l’utero le sarà tolto; figli ne ha già due, non gliene servono altri.
E’ il mukadam che gestisce tutto: paga in anticipo 1100 euro a coppia di lavoratori per i sei mesi di lavoro.
“Siamo soltanto delle contadine, noi, quindi i superiori ci sfruttano”
“Se una donna finisce in ospedale deve restituirmi 5 euro, se la accompagna anche il marito 8. Le cose qui funzionano così, non li pago in anticipo per nulla”. E’ lo stesso mukadam, il sovrintendente al lavoro nella piantagione, che lo racconta alla telecamera.
Ai lavoratori non è concesso alcun turno di riposo, nessuna assenza è giustificata, infatti va risarcita al mukadam. Tre minuti per fascio: tagliare, raccogliere, legare. “Ho male alle gambe e alla schiena e non riesco a muovermi”, dice Shesehkala Raju Rathod, ma non può fermarsi mai.
Per questo sei anni fa ha preso una decisione radicale: doveva resistere più a lungo e senza dolori nei campi, un organo responsabile di parte delle sue sofferenze andava rimosso. Accusava dolori addominali, si è rivolta ad un medico che l’ha confermata nella sua decisione: l’utero va tolto, è meglio così.
“Io non ho capito molto bene ma ho accettato di farmelo togliere”. E come Shesehkala altre 14mila donne nell’India occidentale hanno optato per un’isterectomia. L’utero impiccia nel lavoro, il lavoro serve per sopravvivere, i capi, i medici, tutta la società che ha coperto con l’omertà, se non peggio, con l’indifferenza, questo fenomeno è d’accordo.
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Squisita violenza di genere su scala continentale
Ne aveva già parlato la BBC a luglio del 2019 e avevamo ripreso e commentato la denuncia.
Fa davvero riflettere, oltre che profondamente indignare, un fenomeno così largo e così accettato. Questa è vera violenza di genere, inflitta alle donne, persino con la arresa complicità delle stesse, per il solo fatto di essere donne e di avere una corporeità orientata alla generazione.
L’utero è quel seno che tutti ha ospitato, compresi gli inflessibili e corpulenti appaltatori che gestiscono centinaia di “coltelli dello zucchero”, così si chiamano i lavoratori sfruttati in questo settore tragicamente fiorente.
Kavhita si è fatta operare a 30 anni, aveva già tre figli. Ma per potersi operare ha dovuto pagare 200 euro: due mesi di stipendio. Hanno dovuto vendere delle vacche e indebitarsi; ora lavora per ripagare i debiti.
Il suo utero era ridotto male, pieno di infezioni ricorrenti e la causa, ancora una volta, sono le condizioni di lavoro oppressive: le donne si alzano alle 3 di notte per preparare il cibo che servirà a loro e alla loro famiglia nella lunghissima giornata di lavoro. Non hanno acqua corrente, non riescono prendersi cura di sé e della propria igiene personale. Le infezioni sono decisamente favorite. Figli ne ha già, pensa Kavhita, ora devo essere sicura di poter lavorare per sfamarli.
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E’ la versione estrema dell’ostilità del mondo produttivo per le mamme e i bambini. I tempi della maternità sono morbidi, larghi, imprevedibili. Il lavoro esige ripetizione, stabilità, certezza di prestazioni.
Cose anziché persone
La donna, così assimilata all’uomo e l’uomo costì ridotto a cosa, mero strumento di lavoro. Non è un caso che li chiamino “coltelli”, come fossero semplici e anche economici utensili da lavoro.
Il paffuto mukadam Krushna Rathod constata solo che non è bel fenomeno ma è pacifico nella convinzione che non sia colpa di nessuno: come negare alle donne la libertà di guadagnare di più (mentre invece il tema è che “perdono” meno soldi per via delle sanzioni che si beccherebbero per assenza dal campo causa dolori mestruali)?; come negare a loro la libertà di assumere donne più sgobbone e ai medici il sacrosanto diritto di guadagnarsi lo stipendio rimuovendo organi perfettamente sani? E’ così e basta. E ora via con quel secondo carico, muovetevi!
Parliamo di un paese, l’India, ricco di contraddizioni, prosperità estrema e miseria nera, sfruttamento minorile e crescita esponenziale.
Non resta che constatare con l’amarezza del cinico che i modi di infierire sull’umanità non smettono di moltiplicarsi lungo la storia, ma anche con la speranza dei cristiani che l’urgenza di evangelizzare è sempre al primo posto. Dove manca lo sguardo di un Dio che è Padre dei suoi figli, dove non c’è l’esperienza di essere persona, unica, originale, degnissima e indisponibile, l’altro è facilmente riducibile a mezzo o a inciampo. Se mi serve lo uso, se non mi intralcia lo butto.