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Skin-to-skin? No, il primo abbraccio tra il neonato e la sua mamma

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ChameleonsEye | Shutterstock

Il Parto Positivo - pubblicato il 18/02/21

"Sapete in quale ospedale della città di XXX applicano il protocollo dello skin-to-skin?". L’ennesimo inglesismo per definire una cosa semplice e immensa come “abbracciare il proprio bambino” dopo averlo dato alla luce. Lo skin-to-skin non può essere un protocollo, è il primo abbraccio della vita.

Recentemente abbiamo letto un messaggio con questa domanda: “Sapete in quale ospedale della città di XXX applicano il protocollo dello skin-to-skin?”.

Giustamente, questa mamma, si stava informando per cercare il posto che meglio rispondesse alle sue necessità e ai suoi desideri (non eravamo le persone giuste a cui chiederlo, ma questa è un’altra storia).

Ma se ci pensate bene, il fatto che una donna in attesa arrivi a porsi questa domanda, e che la si trovi sensata, è un problema enorme.

Per lei, per il suo bambino, per tutti noi.

I protocolli del secolo scorso

Nel processo di purificazione da tutti gli elementi emotivi/istintivi del parto che per varie ragioni ha finito con l’essere il prezzo pagato da mamme e bambini nel corso del ‘900 per sentirsi sicuri, il bambino con quel suo corpicino umido e “sporco”, quel piangere disperato, quell’essere totalmente indifeso, apriva una breccia notevole.

La pratica diffusa, il protocollo che ogni neonato sano subiva, prevedeva essere lavati e ripuliti immediatamente dopo il parto, presentati alla madre – anche lei lavata e riposata – qualche ora dopo (quando andava bene. Quando andava male anche due giorni più tardi) e poi osservati con occhi amorevoli dai parenti attraverso i vetri della nursery e nutriti a intervalli regolari.

A guardarla da vicino, diciamocelo, sembra tanto una grande difesa collettiva contro l’ansia dell’immensità della vita.

Per fortuna nostra e dei nostri figli, la scienza progredisce continuamente.

E da qualche anno i neonati e le loro mamme, di cui nell’800 un accademico si sarebbe interessato malvolentieri e mettendo a serio rischio la propria carriera, hanno iniziato a essere oggetto di studi scientifici seri e appassionati.

Poter guardare dentro quelle pance e quei cervelli con strumenti incredibili e prima impensabili ha fatto venire voglia di capirci di più (e anche il fatto che molte donne siano entrate nelle università forse un po’ ha aiutato, come abbiamo visto qui).


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I benefici di mamma e bambino se lasciati insieme dopo il parto

Ma guarda! Si è scoperto (ad esempio Moore et al. 2016) che se si lasciano il bambino e la sua mamma in pace per circa un’ora dopo il parto stanno meglio entrambi.

L’allattamento tende a partire meglio, con effetti anche a lungo termine, e il sistema cardio-respiratorio del bambino ne trae beneficio.

Una rivelazione!

Insomma, finalmente abbiamo avuto gli strumenti – e l’interesse – scientifici per indagare ciò che qualsiasi mammifero per natura sa benissimo: un cucciolo appena nato ha bisogno della sua mamma (e una mamma dopo il parto ha bisogno del suo cucciolo). I protocolli tradizionali sull’immediato post-parto hanno iniziato a scricchiolare sempre di più e oggi lentamente, finalmente, scricchiolano anche quelli per il dopo cesareo.

BIRTH
Di Halfpoint - Shutterstock

Relazione

Il problema però rimane: è il problema – urgente! – di trovare il luogo in cui la necessità – sacrosanta, pena l’anarchia – che un’istituzione ha di darsi dei protocolli e delle regole possa coesistere con quello che accade davvero tra la mamma e il suo bambino: che è una relazione, che nessun protocollo può contenere mai del tutto.

Quando nelle nostre parole di chi le assiste tutto è articolato all’ombra del protocollo, la relazione si offusca e se ne offusca il ricordo persino alle donne con cui si lavora.

Quando una società educa le mamme a nominare i protocolli con la reverenza dovuta a un verbo supremo e inappellabile, quella società educa le mamme a lasciare l’ospedale alla ricerca di metodi e tecniche (per farlo dormire, togliergli il ciuccio, fargli prendere il ciuccio ecc…).

Mamme protese più verso risposte di autorità esterne che pronte a far fare silenzio per ascoltare se stesse e conoscere quel loro bambino.

Skin-to-skin? abbracciare il proprio bambino

Il fatto che un’intera società abbia dovuto andare a scovare l’ennesimo orrido inglesismo per definire una cosa semplice e immensa come “abbracciare il proprio bambino” è un problema che ci riguarda tutti.

Lo skin-to-skin non è un buon protocollo: perché semplicemente non è – non può essere! – un protocollo.

È un modo di avere esperienza di una relazione che passa dal corpo prima che da tutto il resto: un corpo che si è aperto e uno che è nato e che ha nella pelle l’organo più aperto e più sensibile per fare esperienza di ciò che lo circonda.

Ricordiamo che un feto inizia a sviluppare il tatto, mica solo delle mani ma di tutta la pelle del corpo, a 7 settimane e la vista oltre la 20.


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Lo skin-to-skin è il primo abbraccio della vita

Una relazione che qualsiasi persona lavori in ospedale – come è ovvio in assenza di urgenze mediche – ha il dovere e il privilegio di proteggere ogni volta come se fosse la prima volta: perché ogni volta, è la prima volta, per quel bambino lì e quella mamma lì.

Perché sta alla singola persona applicare il protocollo, ma anche farlo entrare in una relazione. Per le mamme, non ci sono protocolli: c’è solo una relazione. Fondamentale.

Quello che per l’ospedale è il protocollo dello skin-to-skin, per il neonato e la sua mamma è il primo abbraccio della vita.

QUI IL LINK ALL’ARTICOLO ORIGINALE PUBBLICATO DA IL PARTO POSITIVO

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