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Con l’indifferenza verso gli altri in realtà perdiamo tutti

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Di pyrozhenka|Shutterstock

Giovanni Marcotullio - pubblicato il 18/02/21

Papa Francesco diagnosticò nel 2014 alla Curia Romana la malattia (l'undicesima) dell'“indifferenza verso gli altri”. Scopriamo che quanto intendeva dire ci riguarda tutti, e con ricadute molto serie.

Amare il prossimo “conviene” o no?

Avevo diciassette anni quando vidi al cinema A beautiful mind, di Ron Howard e con Russell Crowe: quello era anche l’anno in cui nel programma di filosofia veniva menzionato anche Adam Smith, ma certo fu la mirabile parabola del giovane John Nash sulle “Dinamiche dominanti” a fissarmene in mente, per quanto “diluito”, uno dei principali contenuti.

Certo il passaggio triviale era rinunciabile, e del resto – a riguardare la scena vent’anni dopo – anche la sceneggiatura pare un po’ naïf (questi cervelloni che si fanno le didascalie a vicenda [a favore nostro] sono stucchevoli, ma era ancora presto per TBBT). Il contenuto però era importante, o almeno lo fu per il me adolescente: se fosse banalmente vero che chi persegue il proprio utile sta arricchendo la collettività se ne dovrebbe ammettere che arricchiscano la società anche la mafia, lo spaccio di stupefacenti, la prostituzione e mille altre attività (molte delle quali non a caso illegali) che producono un vantaggio personale a discapito di un ben più forte svantaggio collettivo. E nessun uomo onesto si spingerà a tanto.

Alle volte però nel senso comune s’insinua il dubbio circa l’efficacia che non solo la lezione liberista di Smith – «la lezione individuale serve il bene comune» – bensì a maggior ragione “quella di Nash” sia poco raccomandabile esattamente in quanto non vantaggiosa in termini di utile. Qui si parla di economia, ma il discorso attraversa rapidamente con la medesima impostazione la sfera socio/politica e quella etica: perché condividere? perché pagare onestamente le tasse? perché preoccuparsi delle fasce più svantaggiate della popolazione e dei più fragili tra quanti ci circondano?

L’undicesima malattia curiale diagnosticata dal papa

In realtà, il rapporto con gli altri è per tutti gli uomini della storia la croce, oltre che la delizia, dell’umana società… e in aggiunta a questo il Fondatore del cristianesimo ha insegnato ai suoi discepoli a fare della temperatura di quel rapporto il metro di quella del rapporto con Dio: «Chi infatti non ama il proprio fratello che vede non può amare Dio che non vede» (1Gv 4,20).

E se ci sono molte modalità e molte gradazioni dell’amore, se ne contano altrettante anche della sua mancanza. Diagnosticando alla Curia Romana le sue “quindici malattie”, nel lontano 2014, papa Francesco disse infatti:

La malattia dell’indifferenza verso gli altri. Quando ognuno pensa solo a sé stesso e perde la sincerità e il calore dei rapporti umani. Quando il più esperto non mette la sua conoscenza al servizio dei colleghi meno esperti. Quando si viene a conoscenza di qualcosa e la si tiene per sé invece di condividerla positivamente con gli altri. Quando, per gelosia o per scaltrezza, si prova gioia nel vedere l’altro cadere invece di rialzarlo e incoraggiarlo.

I quattro “quando” scelti dal papa delineano bene il profilo dell’indifferenza a cui sta parlando, che sembra molto ben tagliata e cucita sulle misure di una curia, cioè di una serie di uffici dove anzitutto e perlopiù si lavora:

  1. Pensare a sé non è male, anzi il sé è necessariamente l’unità di misura dell’esperienza dell’amore, nonché la leva per ottemperare al duplice comandamento dell’amore a Dio e al prossimo: il problema è se il pensare a sé non si dispone in funzione degli altri e dell’Altro.
  2. Può sembrare che l’esperienza cresca se viene custodita gelosamente, ma è un’illusione: l’esperienza comincia con un credito che ti viene aperto (da persone lungimiranti), ma fruttifica solo se quella fiducia viene ricambiata e condivisa.
  3. Lo stesso vale non solo per l’esperienza, ma anche per le conoscenze (che si accumulano infatti in quelle): un bravo professionista accumula sul lavoro molti contatti, molte relazioni, ma se imposta la loro regia in modo miope e con respiro corto presto tutti – clienti e colleghi – smettono di fargli credito e lui si ritrova con un pugno di mosche.
  4. Subentra a quel punto il ripiego dei mediocri, che non riuscendo veramente a brillare di luce propria sperano di risaltare per l’oscuramento altrui. La sequenza rende l’idea dell’escalation peccaminosa che si ha dai primi tre “quando” al quarto: qui si gratta nel calco dell’“invidia della grazia altrui” (quarto dei sei peccati contro lo Spirito Santo).

Tale è la violenza vile dei mediocri, e quanto più ci abbandoniamo alla mediocrità – cioè rinunciamo all’ascesi dello spirito e dell’anima (a stento pensabile senza quello del corpo…) – tanto più diffondiamo attorno a noi un clima di inaffidabilità che ha per premesse “la ricerca della felicità” e per conseguenza l’infelicità più soda.

«Tu vinci, io vinco… noi perdiamo»

In una delle sue belle e tristi ballate country, quasi 25 anni fa Kenny Chesney ha sollevato il paradosso di certe “win-win situations” (dinamiche in cui si pretende che tutti vincano) che devono scontrarsi con l’esperienza di un noi che perde:

[…]

Siamo entrambi d’accordo, è la cosa migliore;
l’unica che resti ormai da fare:
tu vinci, io vinco, noi perdiamo.

A volte l’amore non va e basta,
per quanto uno ci si metta d’impegno:
il Signore sa che non l’avevamo presa alla leggera.

Se questa è una “win-win situation”,
perché allora mi sento così giù?
Tu vinci, io vinco, noi perdiamo. […]

Vale per l’amore ma, in modo diverso, anche per tutte le altre relazioni possibili, da quelle parentali a quelle amicali, passando per le professionali: quel che ciascuno detiene è il risultato di quanto ha ricevuto e degli investimenti fruttuosi disposti nel tempo; illudersi di mantenere quel capitale senza investirlo, ossia senza farne una tradizione, è pura follia.

La relazione coniugale e quella parentale sono tra le due maggiori in cui le persone adulte si trovino a confrontarsi; quella professionale, però, è pure un’eccellente cartina al tornasole del punto in cui si è arrivati… nonché un buon banco di prova degli aggiustamenti di tiro che sempre è possibile tentare. Su questo Chesney, come molti altri cantanti, si è probabilmente sbagliato.




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