Oltre lo schermo cui si sono affacciati a lungo e ancora si affacciano i nostri figli delle scuole superiori ci sono loro, gli insegnanti. Il solo sguardo da cui possiamo sperare che in quelle ore attingano motivazione, forza, anche un po’ di classica strizza da interrogazione a sorpresa. Insomma, vita e desiderio di imparare, nonostante tutto. Abbiamo intervistato Laura Crucianelli, professoressa di Lettere al Liceo classico-linguistico G.Leopardi di Macerata.Questo periodo, ormai battezzato “il tempo del Covid”, ha significato per milioni di famiglie -anche- un radicale stravolgimento nelle giornate scandite da scuola, lavoro, sport, tempo per la famiglia stessa.
Finora, come mamma, mi sono concentrata soprattutto ad osservare l’impatto che questa situazione di emergenza ha avuto sulla vita dei figli, a considerare i rischi per la salute da cui sono stati sottratti e dai quali hanno protetto altri; ma anche quelli comunque severi cui sono stati esposti. La riduzione, quasi l’azzeramento della loro socialità, per quanto motivata, ha già avuto e avrà effetti sulla loro vita. Posto che incoraggiarli a lamentarsi con il nostro essere sconsolati e delusi non porta a niente di buono, e che le situazioni difficili esistono e conviene essere tetragoni ai colpi di ventura (e creativi!), cosa si può fare? Seconda riflessione, che ha un ruolo fondamentale per questa intervista: come hanno vissuto i professori questa situazione. Ora lo chiederò a una di loro: “come avete accusato il colpo e che strategie avete messo in campo per non patire troppo il ripiego della DAD?”
Ed ora, carissima Laura, per entrare nel vivo, vorrei innanzitutto dirti grazie per averci dedicato tempo e attenzione: ciò che ci interessa sapere da te, che insegni da anni nella scuola superiore, è come hai vissuto e come stai attraversando questo momento così inedito. Per prima cosa ti chiedo di presentarti ai nostri lettori di Aleteia For Her:
Eccomi, sono Laura Crucianelli, sposata con Stefano da 17, quasi 18 anni. Per raccontarmi in breve direi questo: seguendo la mia passione per la Parola – in maiuscolo e in minuscolo- insegno Lettere al Liceo Classico -Linguistico “Giacomo Leopardi” di Macerata. La mia vita è scandita dalle giovani voci dei miei studenti e dei miei tre figli, materiale di un libro umano che non è nero su bianco ma che porto scritto negli affanni e nei sorrisi quotidiani. Sono, insomma, una donna media – tranne, ahimè, per la taglia – con una spiccata propensione per ingiustificati stati d’ansia e reazioni imbranate agli stimoli dell’esistenza, ma anche con una inaspettata e grata chiamata alla gioia.
Che presentazione gustosa. Tradisce già tanto del tuo particolare modo di affrontare la vita. Veniamo ai tuoi ragazzi, gli studenti: come stanno, cosa desiderano?
In realtà, come ormai sanno quasi tutti, la dad è stata un’invenzione di noi insegnanti che, presi dall’angoscia di non rivedere i nostri studenti per chissà quanti giorni – all’epoca nessuno sapeva che sarebbe stata questione di mesi!- ci siamo spontaneamente ingegnati per piombare dentro le case della gente con le nostre spiegazioni lasciate a metà il giorno prima e le nostre ansie di restare indietro con la programmazione. Lo dico un po’ scherzando, in parte è stato così, ma in parte, se ripenso a quei primi giorni, ricordo i messaggi disorientati dei ragazzi, che si domandavano se dovessero avere davvero paura o no e mi pare che, nel dubbio che ci accomunava, circolasse una certa tenerezza tra me e loro. Insomma, non era come quando la scuola chiudeva per neve, c’era un’inquietudine di fondo e, come primo compito, mi sono sentita di ascoltare quella. Forse è per questo motivo che non mi sembra di aver risentito troppo, sul piano umano, dell’assenza fisica – che pure conta, altroché! – perché mi sentivo abbastanza sintonizzata con le loro domande, non solo sugli autori della letteratura.
Leggi anche:
Mario Draghi: l’investimento nei giovani è essenziale per la crescita
Cosa manca loro di più e cosa li aiuta ad essere resistenti (soffri anche tu di una lieve allergia all’abuso del termine resilienza, vero)?
Devo ammettere che sono molto fortunata perché io insegno letteratura italiana a ragazzi molto studiosi e determinati, con obiettivi spesso molto più chiari rispetto a quelli che avevo io alla loro età, ma a volte questa mentalità piuttosto “performante” si è rivelata in realtà un peso schiacciante e non di rado i ragazzi hanno lamentato l’eccessivo pressing che sentivano da parte di noi adulti. Non so se sono riuscita nell’intento, ma ho avvertito la necessità di rallentare e di andare al nocciolo. Non volevo privarli della lettura di autori che sapevo avrebbero parlato al loro cuore, ma non volevo che la loro percezione fosse che questo mi serviva “per il voto”. D’accordo, dovrebbe sempre essere così, ma la contingenza e la necessità mi hanno spinta a ripuntare la bussola sull’essenziale. A me pare che i ragazzi abbiano compreso che giocavamo la stessa partita, nella stessa squadra, per quanto a volte anche io sia stata preda delle mie fisse e della mia stanchezza. Poi, certo, ci sono ambiti in cui un insegnante, per quanto volenteroso, non può arrivare: c’era chi stava prendendo la patente e avrebbe voluto fare il pieno e girare il mondo e invece si vedeva costretto tra quattro mura, chi sentiva la mancanza del fidanzato, tutti del compagno di banco. Abbiamo provato a raccontarci, tra un sospiro, una protesta e una risata. Tra i rumori della casa, qualche sciacquone del bagno in sottofondo, mio figlio piccolo che ogni tanto faceva capolino per fare ciao ai “bimbi grandi” e abbracciare la mamma. Lo sconforto c’era, ma non ha, finora, prevalso.
Leggi anche:
Blue Monday? Vieni, cara tristezza, a parlarci di noi!
Cosa (o addirittura chi) si rischia di perdere, come insegnante, con la dad?
Quello che ho appena raccontato vale infatti per i ragazzi più grandi, delle 4^ e delle 5^ liceo. I ragazzi del primo anno, invece, devo ammettere con rammarico che li ho quasi completamente “persi”. Assenti, spenti in senso metaforico e reale, con telecamere funzionanti a intermittenza, spesso, al posto dei volti, mostrano avatar con gattini (ve ne sono di tutti i tipi: siamesi, soriani, balinesi), o con un desolato buco nero. E chissà cos’hanno nell’animo anche quando, a fatica, si riesce a ottenere che si inquadrino almeno fino alla fronte e si intravedono meches colorate di colori arrabbiati, sullo sfondo di camerette con ancora i peluches sulle mensole. Con loro è la sfida più difficile, perché la distanza è arrivata proprio quando iniziavamo a conoscerci e iniziavano a conoscersi tra studenti. Con loro i mezzi di comunicazione non sono – come per gli altri – un modo per mantenere almeno un poco i contatti. Si ha quasi l’impressione che siano finiti, anche con la scuola, nell’ennesimo gioco virtuale. Ma ne avevano già tanti e non era di questo che avevano bisogno. Poi c’è sempre qualcuno che è un’eccezione, che mantiene lo sguardo acceso, a cui il saluto di Ettore alla moglie Andromaca suscita ancora delle domande o una ribellione. Però temo che si tratti dei ragazzi che hanno già una certa struttura, maturata negli anni precedenti, e sembrano più maturi dei compagni. I più fragili, nella mia esperienza, si nascondono e si rannicchiano dentro la scusa di una connessione ballerina.
Un lato positivo, o meglio delle sorprese per cui essere grati?
Un piccolo episodio. L’altro giorno una ragazza, con alcune difficoltà sul fronte relazionale e della comunicazione verbale in senso stretto – anche una leggera balbuzie o un difetto di pronuncia possono sembrare un ostacolo insormontabile – , durante un’interrogazione on-line, rispondendo a una mia domanda sulle paure di alcuni personaggi letterari, inaspettatamente ha parlato delle sue paure, che derivavano proprio dal senso di inadeguatezza che da sempre sentiva quando era con gli altri e che per questo motivo faceva tanta fatica a esprimersi. “Io, prof, se sto da sola, non mi blocco con le parole”. Non so se avrebbe mai avuto il coraggio di questa confidenza se fossimo stati in classe. So che in quel momento avrei voluto abbracciarla almeno con lo sguardo, invece avevo un problema con la visualizzazione dello schermo e ho dovuto inghiottire la rabbia insieme alla commozione.
La tua fatica più grande in questa situazione come insegnante?
A parte l’angoscia di premere un tasto sbagliato, disconnettendomi dalla lezione, dal registro elettronico, dal mondo e di venire licenziata, dici? Scherzi a parte – ma anche lo scherzo ci può salvare, perché ci permette di relativizzare il nostro vissuto e di metterlo in relazione con quello degli altri, senza guardare sempre e solo il nostro ombelico – io ho fatto tanta fatica a vedere invasi i miei spazi familiari e a dover fare la parte dell’invasore dello spazio altrui. L’idea che i miei figli si accapigliassero dietro le telecamere, che mio marito chiedesse in labiale se andava bene il pane toscano mentre io provavo a mettere insieme delle frasi sensate, mi dava all’inizio il mal di stomaco. E ancor più mi dovevo far violenza ad esigere che gli alunni tenessero accesa la webcam perché immaginavo che qualcuno avesse motivi di imbarazzo simili o peggiori dei miei. I primi tempi mi sono sembrati davvero una reciproca violazione di domicilio. Poi questa cosa delle chat di WhatsApp degli insegnanti e con gli alunni a tutte le ore mi ha proprio logorato. Sempre chiusa in casa, ma senza l’intimità che la casa dovrebbe assicurare. Per il mio manicheismo e la mia mente elementare che non riesce a organizzare se non una cosa alla volta è stato un duro colpo.
Leggi anche:
Senza relazione e senza memoria non si educa nessuno
Secondo te cosa stanno comunicando i “responsabili del potere” ai nostri ragazzi? Cosa passa dalle loro decisioni, dallo stile di gestione della pandemia, dalle cose che dicono e da quelle che omettono?
Ora ti dico una mia spassionata impressione con relativo scoramento: poiché giustamente nel momento di massima urgenza sono stati ritenuti i più autonomi e quindi in qualche modo i più sacrificabili questo “state a casa che sapete gestirvi ed è legale” temo si sia tradotto in un “arrangiatevi, non lamentatevi”. A te non pare che ci sia (stata) una quasi totale ignoranza di chi sia un giovane, di quali necessità abbia, di quanto conti l’aspetto della socialità soprattutto in questa fascia di età? Non pare anche a te che si ragioni solo in termini di produzione e nel brevissimo periodo? Lo ribadisco: non metto affatto in discussione la necessità di contenere il contagio e di proteggere le persone più fragili, ma adesso è ora di trovare la strada, addirittura di osare: diamo segnali fortissimi, inequivocabili di speranza nel futuro proprio a chi il futuro lo incarna.
“Non è un paese per giovani” deve essere già stato detto da qualcuno, immagino. Perciò non penso di poter aggiungere nulla di originale e innovativo a riguardo. Altri più qualificati potranno dare numeri e statistiche, certo è che già empiricamente ciascuno, come genitore, come nonno, zio, insegnante si è potuto rendere conto che i nostri giovani – e i bambini, anche! – hanno pagato un caro prezzo in questo ultimo anno. Ma non so quanto centri il bersaglio chiedersi se la causa sia stata la gestione della pandemia. Sicuramente tutto poteva essere fatto in modo diverso e migliore, qui e nel resto del mondo, ma la pandemia rappresenta un’emergenza e la gestione delle emergenze è per sua natura poco calcolata, non c’è protocollo che tenga. Quello che, invece, poteva essere previsto e calcolato è che diventa difficile lavorare in piccole aule affollate di 30 studenti, con risorse esigue per gli alunni disabili o con disturbi specifici dell’apprendimento, ad esempio. E questo già in condizioni di assoluta normalità sanitaria. Ora sembra essere stato sollevato un tappeto che nascondeva molta polvere. Nel male, spero che riusciamo a trasformare la cosa in un bene. Forse il presente resterà ancora incerto, tra DPCM, decreti legge e decreti regionali che ci vogliono ora a casa ora in presenza. Ma prima o poi questa pandemia finirà e la società civile – tutta – dovrebbe, stavolta sì, esigere dalle istituzioni una maggiore attenzione sulla questione dell’istruzione. Che non ha a che fare con la produzione di diplomi, quello, bene o male, siamo riusciti a farlo anche in quarantena, ma con la formazione delle persone. Nel momento presente a me, personalmente, basterebbero piccoli gesti come, in questo mare di incertezza, sapere tempestivamente in che modalità svolgere gli esami di Stato. Un modo, peraltro che non costa niente, per dire agli studenti che qualcuno sta pensando a loro. Non è giusto che i giovani paghino l’imperizia di una generazione di quelli che, non a torto, definiscono boomer (ma ci metterei anche i figli dei boomer). Come non è giusto che un bambino siriano abbia la scuola bombardata o una bambina indiana non possa neanche osare di pensare di imparare a leggere e scrivere. Le cose possono cambiare e c’è bisogno di un pensiero e di un’azione audace, di una politica che guardi al futuro e non solo all’immediato tornaconto elettorale, lo sappiamo e diventa retorico ricordarlo. Nel frattempo, nel mezzo, davanti a uno schermo o – peggio- davanti a metà classe “in carne ed ossa” e all’altra metà coi pallini con l’avatar dei gattini, provo a essere una presenza, a infondere fiducia, a dire che le difficoltà esistono, sono un dato di fatto, ma possiamo comunque fare del nostro meglio. Poi c’è anche il caso che diamo il peggio, e però possiamo ricominciare. Se non siamo da soli, se l’obiettivo è quello di guardarci dentro, di pensare, di provare a essere uomini che usano le macchine, ma macchine non sono.
Leggi anche:
La lettera della prof agli studenti: non cedete alla lamentela, questo non è un anno perso!