Una raccolta di poesie scritte dietro il filo spinato testimonia più di tanti discorsi che sanno di retorica l’esperienza del Male assolutoCon l’approssimarsi annuale della Giornata della Memoria mi sono chiesta come poter dare un senso autentico a questa ricorrenza, fuggendo dal rischio di una “celebrazione” scontata dell’orrore della Shoah.
Poesie per non dimenticare l’Olocausto
Questo moto di fastidio interiore nell’ascoltare parole sempre uguali, che alla fine raccontano oggi molto poco di quanto vorrebbero ricordare, mi ha spinto a cercare altro e ad imbattermi in una bellissima raccolta di poesie curata da Valeria M.M. Traversi: “Margherite ad Auschwitz”, apparsa nel 2014 per i tipi di Stilo Editrice.
Nella corposa introduzione intitolata: “L’arte come resistenza: scrivere la Shoah” è lei stessa a spiegare come è nato il titolo del volume.
Nel visitare una mostra fotografica su Auschwitz, la colpirono alcune immagini di bellissime margherite che crescono intorno al Lager, e contemporaneamente l’autore le spiegò che
(…) da un laghetto che si forma lì nei pressi del campo riemergono continuamente frammenti di ossa, vestigia dei corpi carbonizzati… ossa e margherite dal Lager!
La parola come forma di resistenza
Il leit-motiv su cui si impernia questa illuminante introduzione, e che giustifica la proposta editoriale, sta nella considerazione che l’arte, la poesia in questo caso, ha rappresentato per quanti hanno vissuto sulla loro pelle il dramma della deportazione una forma di resistenza – quella della parola – alla disumanizzazione che precedeva la “soluzione finale”.
Molti sopravvissuti ricordano che uno dei motivi principali per cui si moriva all’arrivo in un Lager era la mancata comunicazione, ossia lo smarrimento di trovarsi in una vera e propria babele linguistica in cui la maggior parte dei prigionieri, provenienti da ogni parte d’Europa, era ormai ammutolita, e i soldati tedeschi gridavano ordini in una lingua incomprensibile: la demolizione dell’essere umano partiva da qui, da quella che Levi definisce “l’eclissi della parola” perché “se non trovi nessuno (con cui parlare) la lingua ti si secca in pochi giorni e con la lingua il pensiero”.
Leggi anche:
Giornata della Memoria. I bambini e l’Olocausto.
Il valore vitale della scrittura
Ecco perché per molti, in quelle condizioni drammatiche, il gesto della scrittura ha assunto un valore vitale, tanto da far dire allo scrittore israeliano Aharon Appelfeld che l’aver potuto scrivere su un pezzetto di cartone i nomi dei suoi familiari ha scacciato in lui il dubbio che la famiglia da cui proveniva non fosse mai esistita, che fosse solo frutto della sua fantasia, confermando a se stesso la sua identità e il suo valore.
Dunque la parola scritta ha un potere evocativo, creativo, serve a mantenete viva e positiva la funzione della memoria; allo stesso tempo ha rappresentato per i prigionieri un modo per riconoscersi ancora esseri umani, in una funzione propriamente umana che non fosse solo quella di soddisfare le esigenze e i bisogni corporali.
Nello stesso tempo queste testimonianze scritte rappresentano per noi la memoria viva, in carne ed ossa, di esistenze che altrimenti rimarrebbero senza volto, inghiottite nella impersonale ricostruzione della Storia o nella retorica dell’Olocausto.
La Storia, dunque, da sola non può bastare perché, come dice la poetessa polacca Wislawa Szymborska, “La storia arrotonda gli scheletri allo zero. /Mille e uno fa sempre mille./Quell’uno è come se non fosse mai esistito”. Di fronte a sei milioni di persone sterminate non potremo mai dire di aver conosciuto tutto, e se qualcuna di loro ha lasciato tracce del suo passaggio nel mondo è davvero difficile pensare di potercene disinteressare, perché nulla più delle storie individuali, personali – e perciò uniche – può raccontarci la verità.
La considerazione che l’arte “è sostanza, è mezzo di espressione, è memoria”, come viene sottolineato nell’introduzione…
(…) ce l’hanno insegnato proprio coloro che hanno trovato il modo di far arrivare le loro voci dall’interno dell’inferno o nelle sue strette vicinanze: i bambini che hanno scritto poesie e fatto disegni; i musicisti che hanno composto e suonato; i prigionieri anonimi che hanno rubato fogli e matite per scrivere una poesia; Primo Levi che si astrae per qualche minuto dall’orrore recitando i versi sull’Ulisse dantesco.
La composizione del libro
I testi proposti in questa ampia raccolta sono divisi in tre sezioni.
La prima – “I testimoni diretti. Voci dai ghetti e dai Lager” – comprende le poesie scritte dietro il filo spinato da quanti hanno voluto così testimoniare la loro esperienza di internamento ed estremo degrado.
La seconda sezione – “I testimoni indiretti. Voci fuori dal filo spinato”- raccoglie i versi di tre grandi poeti di lingua tedesca: Nelly Sachs, Paul Celan e Peter Weiss, che riuscirono a sottrarsi alla cattura ma vissero traumaticamente la loro sopravvivenza e si assunsero il doloroso compito di dare voce a chi era stato cancellato dal mondo.
Nella terza sezione sono stati inclusi i testi di poeti, quasi tutti non ebrei, che nel tempo si sono confrontati con l’enormità di questo evento, offrendo ciascuno una prospettiva particolare di quella tragedia grazie agli strumenti unici della poesia.
10 poesie per non dimenticare l’Olocausto
Qui di seguito nella galleria fotografica vi offriamo alcune di queste testimonianze che, a differenza degli storici che perseguono la realtà oggettiva dei fatti…
sono in grado di trasmettere la parte di verità (la realtà soggettiva) a cui i superstiti hanno potuto accedere, ossia comunicano l’essenziale esperienza del Male radicale.