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Dobbiamo provare rimpianto per i peccati commessi?

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Marjan Apostolovic | Shutterstock

Gelsomino Del Guercio - pubblicato il 23/01/21

La Comunità di Taizè ci invita a paralizzarci sul rimpianto. I nostri peccati, infatti, possono portarci ad amare di più

Sappiamo di aver commesso un peccato: dobbiamo provare rimpianto? Dobbiamo frustrarci per quello che abbiamo fatto? E’ la cosa più giusta? La Comunità di Taizè ci aiuta a rispondere a questo dubbio che molti di noi hanno avvertito nella propria vita.

“Che cosa dobbiamo fare fratelli?”

Partiamo dal Nuovo Testamento prima di rispondere alle domande. Nel momento in cui l’apostolo Pietro si rese conto di quello che aveva fatto rinnegando il Cristo, «pianse amaramente» (Matteo 26,75).

E alcune settimane dopo, il giorno di Pentecoste, ricordò agli abitanti di Gerusalemme quanto fosse scandalosa l’esecuzione di Gesù innocente. Ed essi, «all’udir tutto questo si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: “Che cosa dobbiamo fare, fratelli?”» (Atti 2,37). Il rimpianto, per il peccato commesso, si attacca agli errori come un’ombra di cui è difficile disfarsi.

Un rimpianto ambiguo

Questo rimpianto è ambiguo: può far sprofondare nella disperazione o portare al pentimento. Deluso di se stesso, Pietro avrebbe potuto disperarsi. Esiste una «tristezza del mondo che produce la morte». Però il ricordo dell’amore di Cristo ha cambiato le lacrime di Pietro in «tristezza secondo Dio, che produce un pentimento che porta alla salvezza» (2 Corinzi 7,10).

Il suo rimpianto è allora diventato un passaggio, una porta stretta che si apre sulla vita. La tristezza mortale, invece, è il rimpianto indispettito di colui che conta solo sulle sue forze. Quando queste si rivelano insufficienti, egli comincia a disprezzare se stesso fino a odiarsi.

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Il pentimento

Forse non c’è pentimento senza rimpianto. Tuttavia la differenza tra i due è enorme. Il pentimento è un dono di Dio, un’attività nascosta dello Spirito santo che attira a Dio. Per provare rimpianto dei miei sbagli non ho bisogno di Dio, lo posso provare da solo. Nel rimpianto io mi concentro su me stesso. Con il pentimento, invece, mi volgo verso Dio, dimenticandomi e abbandonandomi a lui. Il rimpianto non ripara l’errore, ma Dio, a cui ritorno nel pentimento, «dissipa i miei peccati come una nuvola» (Isaia 44,22).


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L’assenza di fiducia

«Peccare» significa «non raggiungere la meta». Siccome Dio ci ha fatti per vivere in comunione con lui, il peccato è la separazione da lui: il rimpianto non potrà mai liberarci da questa lontananza da Dio. Può anzi, se ci chiude in noi stessi, allontanarci ancor più da Dio e dunque aggravare il peccato! Secondo una parola un po’ enigmatica di Gesù, il peccato consiste nel fatto «che essi non credono in me» (Giovanni 16,8). La radice del peccato, il solo peccato secondo il significato più vero del termine, è l’assenza di fiducia, è non accogliere l’amore di Cristo.


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La gratitudine

Un giorno, una donna si reca da Gesù. Piange e con le sue lacrime gli lava i piedi. Mentre gli altri sono scandalizzati, il Cristo comprende ed ammira. Quella donna prova rimpianto per i suoi errori, ma il suo rimpianto non è amaro, non la paralizza. È fiduciosa e dimentica se stessa. Ed è Gesù a dire: «Le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato» (Luca 7,47). Credendo a quella parola, ella non ha più nulla di cui dispiacersi.

Chi dovrebbe provare rimpianto per aver molto amato? Con la grazia di Dio, i nostri peccati possono portarci ad amare di più. E allora il rimpianto deve cedere il posto alla gratitudine: «Rendete continuamente grazie per ogni cosa» (Efesini 5,20) (Taize.fr).


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