Alessandro D’Avenia, proprio di lunedì, non smette di offrirci occasione di riflettere e di tornare con una presa più forte alla nostra vita di questi giorni, così faticosi e così pieni di una grazia speciale.
La tristezza è una buona notizia
Oggi Alessandro D’Avenia dal suo ultimo banco sul CorSera ha parlato proprio di quello che sta attanagliando anche me, da giorni. Non i miei figli ma proprio me che li vedo “andare a scuola” in questi modi mutilati e mutilanti ai quali, più che il pericolo della pandemia, l’incuria di chi amministra la cosa pubblica li costringe ormai da mesi. I mesi alla loro età sono tanta vita scolastica e si misurano in quadrimestri, interrogazioni, medie da tirare su e volti da avere vicino, persino da detestare (e basta con questo martellamento sul cyberbullismo, mi hanno detto tutte e due le più grandi. Ogni scusa è buona per parlarne, abbiamo capito!); facce dunque non sempre amiche, è vero, ma necessarie. Sono i compagni di una strada che fa paura ma bisogna pur fare. Accidenti a questo virus, che però glielo ha ricordato, eccome se vogliono farla!
Prendo fiato, metto un punto.
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Ho accennato alla colpevole trascuratezza cui sono sottoposti i nostri ragazzi, soprattutto quelli degli istituti superiori che sono stati ritenuti più maturi, gestibili e quindi più sacrificabili. Ed è proprio su di loro che è ancora più evidente che non si ha chiaro lo scopo dell’educazione (la scuola è al suo servizio). A cosa educhiamo, cosa si intende tirare fuori da queste persone chiamate alla vita poco più di 10 anni fa?
Ho capito perché non se ne parla: aprirebbe ad una dimensione di cui non sta bene conversare sulle pubbliche, ancorché virtuali, piazze: il senso della vita (e tutto ciò che si avvicina pericolosamente alla materia viene scansato; cito a memoria una considerazione di Vittorio Messori che diceva che insieme a Gesù, di sesso, denaro e morte non si parla tra persone civili)
“Questa domanda di scopo è un punto trascurato nella maggior parte delle discussioni sull’educazione, e tuttavia è piuttosto importante.
Come si fa a preparare una mente umana alla vita se non si sa quale sia lo scopo della vita umana?” (Frank Sheed)
Benefico sintomo di una ferita che vuole guarire
Sono stata così felice, dunque, di leggere nell’articolo di D’Avenia, che è innanzitutto un insegnante, che era triste. Primo paradosso che nasce semplicemente dall’intuire una condivisione profonda; lo sono stata soprattutto perché ogni vero maestro parte da sé stesso, da come la vita stessa interroghi e ferisca lui per primo. Dunque lo ha detto: “sono triste”. Ma di quale tristezza? e cosa è la tristezza; e che cosa viene a dirci con l’urgenza del dolore che comporta?
La tristezza è uno di questi sentieri sul crinale della vita, che spesso non vogliamo affrontare, perché la nostra cultura accetta solo il «positivo» e ci priva così del coraggio per vincere la paura del negativo.
Eppure la tristezza è un sentimento «positivo», perché ci «pone» in condizione di guarire dal dolore che la genera: il nostro corpo si difende dalla malattia segnalandola proprio attraverso il sintomo di dolore. Noi invece vogliamo eliminare dalla vita tutto ciò che ci sembra «improduttivo», come macchine da cui ci si attende sempre una performance ineccepibile.
Ma noi siamo vivi e dobbiamo rivendicare il nostro diritto alla tristezza come vita ferita che cerca di guarire. (Ultimo banco, 18 gennaio 2021)
Basta ansia per questioni di autostima
Che meraviglia, tutte queste avversative, come schiaffi dati in faccia alla cultura dominante, senza acrimonia a dire la verità; ma ben assestati contro questo modo di guardare alla vita come fosse un’esibizione costante con tanto di giudici a dire per me è sì, per me è no, mi spiace non mi sei arrivato.
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E’ un po’ che ci torna sopra: la vita stessa è la questione fondamentale, non quali “numeri” riusciamo a mettere in scena mentre ne disponiamo, e a favore di un pubblico che tanto non si sa nemmeno se apprezzerà. Sta dando l’assalto a questo muro che ci divide in due dentro noi stessi come fossimo ai tempi di una invisibile cortina di ferro. Noi, che ci facciamo per noi stessi e altrui impietosi soppesatori di un valore inafferrabile.
Non siamo macchine
A chi importa, davvero, che abbiamo successo? Non alla nostra famelica autostima che, così dopata, non ne avrebbe mai abbastanza; non a chi applaude, ché basta un altro hashtag in tendenza e veniamo presto dimenticati. Forse a chi ne ricava profitto? E allora vedete che la cosa pur riguardandoci pochissimo riesce a metterci in gabbia? Rifiutiamole queste metafore vecchie come la prima rivoluzione industriale: noi non siamo macchine, non facciamo giri di prova, non corriamo gare, non bruciamo carburante. Siamo vivi e la tristezza ne sia la fiera prova.
Noi genitori e voi insegnanti – che non siete meno colpiti da questa estenuante prova- siamo tristi, probabilmente per la stessa ragione che denuncia D’Avenia.
(…) qualche giorno fa, dopo l’ennesimo contraddittorio rinvio del ritorno a scuola in presenza (genitori e ragazzi si stanno ribellando con manifestazioni e ricorsi di cui vi racconterò la prossima settimana), sono stato colto da una profonda tristezza. Ero sanamente triste e questo era il sentiero su cui la vita mi chiamava a camminare con i miei ragazzi per non precipitare nei due abissi al lato del crinale della tristezza: l’indifferenza e la disperazione, che paralizzano l’iniziativa e l’impegno. (Ibidem)
La tristezza diventa la materia di cui trattare con gli studenti, non un peso (ancora!) da gettare sulle loro giovani spalle. Già da tempo mi ricordano la caricatura di quei “nani sulle spalle di giganti” che mi immagino al contrario; fanciulli dalle spalle legittimamente gracili che vedono caricarsi sulle schiene curve anziani imbolsiti. No, basta trattarli come bestie da soma, i giovani. Se sono il futuro devono almeno poter respirare.
La tristezza rende il dolore un sentiero che, affrontato con passi accurati e possibili, permette di resistere a un male inevitabile o alla privazione di un bene. La tristezza è risonanza autentica di fronte al mondo ferito e chiamata a trovare una cura, purché non la si usi come alibi per rimanere fermi, facendola precipitare in apatia o disperazione.
E così ho dedicato un’ora intera a chiedere ai miei studenti stavano sperimentando dopo mesi di Dad. (Ibidem)
Un maestro insegna se impara
Il bello è che un insegnante così esperto e abituato persino ai successi (che rifugge nell’accezione che diceva più sopra) si lascia stupire da suoi studenti, dalla loro umanità che si mescola alla sua. Lui è grato e loro ringraziano: il primo frutto è stato dare un nome alla tristezza, alla fatica che stanno vivendo.
Quindi, a latere ma nemmeno troppo, guai a chi ancora si azzardi a prendere in giro i ragazzi che protestano e reclamano la scuola. Volete ributtare anche su di loro i vostri polverosi ricordi da Notte prima degli esami, sempre lì a sognare un’isola greca dove andare a divertirsi? Loro, forse, sono diversi; e persino voi, se riguardate bene nei vostri ricordi, non avete solo quella patetica nostalgia da tirare fuori, ma il senso di una promessa di pienezza che ancora sperate venga mantenuta.
Sono emerse idee interessanti e più costruttive di quanto credessi. Alla fine una di loro ha ringraziato per l’ora così trascorsa, perché l’aveva aiutata a guardare con meno paura e rassegnazione alla sua frustrazione. Tutti concordavano sul fatto che dare un nome preciso alle fatiche del momento (la lingua madre è madre anche per questo: dire bene le cose è benedirle) e sentire l’esperienza degli altri, anche di un adulto, li aveva sollevati e incoraggiati a non lasciarsi andare (ciò che ci accomuna tutti è la perdita di motivazione, la paralisi del desiderio). (Ibidem)
L’unica cosa positiva della DAD
Che la didattica a distanza sia un male e non così minore come ci si sforza di presentare è ormai acclarato; non ce la si caverà quindi arcobalenando una situazione oggettivamente sgradevole e non all’altezza del grande compito della scuola. Anzi, solo una volta riconosciuto questo dato di fatto (la positività, in senso stretto è questa: vedere ciò che è dato, ciò che ci è posito) si può accettare di ricavarne qualcosa di buono. Le difficoltà possono diventare occasioni solo se le si riconosce come tali: ostacoli lungo la strada che ha un meta degna e desiderata. Se l’inciampo ha il merito di rimettere a fuoco destinazione e gusto del cammino allora ci sto, ben venga il gioco da tutti invocato, purché lo si faccia per davvero. Così racconta di avere fatto il prof coi suoi studenti relegati come lui a una distanza che soffrono di non poter ancora azzerare.
In Dad ho maturato un metodo più ricco e ampio che chiamerei, con Socrate, «maiuetico» o «co-duttivo». La lezione si fa insieme, come un’orchestra che esegue un pezzo: dopo aver reso «fisicamente presente» (data la incorporeità del mezzo di comunicazione) lo spartito (lettura condivisa ad alta voce di un passo dei Promessi Sposi imparare a memoria una poesia…), l’energia sprigionata dalla materia attraversa tutti che ne diventato «con-duttori» (come per l’elettricità). Tutti sono chiamati a interpretare lo spartito rispettando il pentagramma e gli altri strumenti: la conoscenza somiglia così a una spirale che, giro dopo giro, si approfondisce ruotando attorno all’asse centrale; i singoli diventano una comunità di ricerca; la scoperta coinvolge come in una caccia al tesoro;io sono al servizio della musica della vita tanto quanto loro, ma come maestro d’orchestra. (Ibidem)
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Il Santo d’Ippona lo cita proprio l’autore dell’articolo e noi, manco a dirlo, gli siamo grati. Partiti dalla tristezza alla fine si sono trovati rallegrati.
Una gioia che è il risultato di una tristezza «ben vissuta»: un sentimento-sentiero, un sintomo che è inizio di guarigione, perché se un albero si secca, in un suolo che sembra arido, è perché non ha messo radici abbastanza in profondità.
E’ un ottimo viatico a questo punto della traversata; siamo stanchi, siamo tristi, a volte siamo proprio sfiduciati. Sembra di avere dato tutto, in termini di resistenza, creatività e mansuetudine; ci siamo addirittura abituati ad una postura un po’ cinica: “tanto ormai non si torna in presenza”, “meglio così, almeno posso stare in pigiama, dormo di più,..”, “va bè, tanto vale andare avanti, il ritmo lo abbiamo preso…”
Un po’ di disillusione è rimasta anche a me: credo arduo replicare su larga scala questo approccio così autentico e centrato sulle persone e legato – forse più di quanto creda lo stesso D’Avenia – al suo carisma. Ma una cosa ardua non è meno vera né meno meritevole dei nostri sforzi. L’opposto.
Difficoltà fa rima con opportunità?
Credo, addirittura, che nonostante la frustra retorica delle contrarietà che diventano opportunità, della resilienza che tutti ci deve vestire come divisa d’ordinanza della nuova umanità, credo che sorgerà qualcosa e qualcuno di inatteso, di umanamente positivo; qualche giovane o vecchio, non so, con un’idea davvero innovativa, un metodo da poter diffondere, una soluzione che ci sembrerà davvero naturale e giusto fare nostra. Magari sarà più uno sviluppo graduale, un percorso a ostacoli fatto anche di stop improvvisi o false partenze, ma qualcosa di grosso bolle in pentola.
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Niente di che, a ben guardare, niente di troppo grosso visto che la vera novità, la perenne fonte di guarigione, la vera via d’uscita dalla nostra condizione di feriti di guerra è già entrata nella storia per portarla tutta in salvo, a prezzo della nostra libertà e passando proprio nei cunicoli delle fatiche, delle cadute, dei benedetti incompresi fallimenti.
Come cristiani non dobbiamo scuoterci più di tanto. Non possiamo permetterci una tristezza radicale. Non c’è lo spazio nel cuore, se è abitato dalla speranza vera, per cedere alla disperazione e al disincanto. Ogni vita si gioca sempre e solo al cospetto del Creatore e in una partita a scacchi con l’unico Salvatore. Di questa “persecuzione” perenne, ormai, non ho più dubbi. Ogni condizione, e questa della pandemia lo fa quasi allo stesso modo di un giorno di primavera speso in una gita fuoriporta, ci mette davanti alla decisione radicale: io, a chi voglio appartenere?
Per questo non vedo l’ora di tornare a fare coi miei figli e gli amici e chi vorrà unirsi delle sane, spensierate, allegre e serissime gite fuori dalla porta della paura.