Siamo in un tempo particolare, è vero, segnato da una condizione di pericolo per la salute e per la convivenza tra noi come non ne vedevamo da decenni, almeno qui in Occidente. Eppure la Salvezza, quella vera, ci ha già raggiunti e la nostra condizione pur fragile e soggetta a minacce è già al riparo.
Il calendario non è fatto di DPCM
Ad essere onesti lo sappiamo tutti che non sono stati i DPCM a scandire i nostri giorni sul serio; eppure quelli e prima di loro la pandemia coi suoi rischi ci hanno travolti. Come non patire per sé stessi e per chi ci è vicino se è stato colpito nella salute, nella vita sua o dei suoi cari, nel lavoro, in qualche sicurezza?
Ci siamo sfiniti di distinguo e imbarbariti, a volte, in scontri di retroguardia e spesso non era che una esagitata confusione di piani. Che peccato certo spettacolo anche tra noi cattolici; ci siamo fiaccati di colpi bassi in discussioni marginali o in frettolose profezie.
Diventare migliori
Per diventare migliori non basterebbero 100 epidemie ma una può servire almeno a fare il punto, se ci si mette di buzzo buono. Primo risultato possibile, riconoscere che da soli non ci salviamo, nemmeno stavolta – Te Deum Laudamus!. Che si sa come sono finiti tutti gli esperimenti di paradisi terrestri hand made.
Ma poi, che obiettivo è “diventare migliori”? La scala di riferimento qual è, l’optimum sarebbe? Esiste eccome, ma va dichiarato. Non può andare tutto nella direzione della sostenibilità ambientale e della maggiore aspettativa di vita. O meglio, che vita ti aspetti per essere davvero felice? Basta sia lunga, regolare e senza troppi urti? Parliamone, spesso è vero il contrario.
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In pericolo lo siamo già
Non ci si salva da soli e nemmeno insieme; tutti gli uomini insieme, nemmeno “se fanno i bravi”, si possono salvare. E salvarsi da cosa, lo sappiamo? in che tipo di pericolo siamo? Quale minaccia è il Covid19, così diversa dalle altre da farci pensare che siamo bisognosi di salvezza? Lo è eccome, ora non scherziamo: e non si giochi ancora alla guerra dei dati, a dire che ne ammazza più la paura che una polmonite interstiziale bilaterale altamente contagiosa. E’ un fatto inedito, per noi, e nella sua imperterrita espansione ha mostrato che in pericolo lo siamo già, che non si stava tanto al sicuro neanche prima; in equilibrio precario come un piatto di porcellana poggiato su un mandarino (pratica tipica di mariti distratti o figli impegnati sempre in qualcos’altro mentre sono costretti a sparecchiare). In pericolo, per un verso, e già al riparo per un altro. Per questo chi ha fede non ha avuto tanta paura in più; la solita, direi, con una percezione più netta della precarietà della condizione terrena e un desiderio più ardente di beni durevolissimi.
Viva la salvezza di Cristo e la gioia di poterla annunciare
Ci siamo persi in sacche e risacche di retorica, anche noi, lo so, in parte abbiamo ceduto. Abbiamo pagato pegno alla poetica dell’opportunità nascosta in un pericolo. Ma anche la routine, i ritmi soliti, le cose da fare, le abitudini benefiche, tentare di costruire il bene dentro l’opacità del normale non era così male. Nemmeno annunciare Cristo in mezzo ad una persistente sebbene irregolare prosperità, non era un brutto vivere, da cristiani.
Più che resistere, insistere
E allora, più che resistere, si può dire che abbiamo insistito. Abbiamo insistito a vivere, a fare le cose in orizzonti più incerti, ad accettare un grado più alto di fragilità per la nostra salute (ora, senza pose, ma chi ha un malato grave in casa già lo sa, si è già fatto le spalle a questo peso e va avanti in una accettabilissima normalità). Abbiamo usato ostinazione con la vita nella forma in cui ci veniva servita e ci abbiamo cucinato quel che si poteva, come ai pressure test di Masterchef, con tanto di Cannavacciuolo di turno ad mollarci schiaffoni sul coppino.
Il rischio di educare, adesso
A noi, a mio marito ed altri amici e famiglie coinvolte, è uscita addirittura una piccola avventura di educazione parentale. Ce l’avessero raccontato, mesi fa, non ci avremmo creduto nemmeno noi: aprirete una scuola media parentale, si chiamerà Stella del Mattino, sarà frequentata da dieci bambini e saranno contenti: studieranno parecchio, farete anche qualche uscita, sport, laboratori e i professori saranno entusiasti e liberi dal peso della burocrazia. Ah, il tutto durante una delle più grandi pandemie che l’evo contemporaneo ricordi.
E’ andata così, sta proprio andando così, invece.
Però come persone non siamo cambiati di colpo, quello no. Certi rapporti sono diventati più intensi e puliti, pur mantenendo la stessa umana ruvidezza.
Quella tipica di caratteri diversi, dovuta alle passioni contro le quali si sta ancora lottando e si è sempre un po’ all’inizio. Quella che si vive tra noi perché siamo tutti originali e animati da desideri non sempre nobili (in questo invece si è spesso tanto simili). Il lavoro di mortificazione e purificazione non si consuma in quattro e quattr’otto, ci vogliono stagioni e stagioni, altroché due miseri lockdown nazionali.
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Nuove professioni
Ho letto che tra i nuovi lavori portati dalla pandemia, oltre al misuratore di temperatura e al distanziatore sociale (sic!) c’è una nuova figura che andrà per la maggiore: il manager della resilienza o giù di lì. (Parentesi di pausa per consentire a chi legge di firmare la petizione – come ha scritto Caterina Giojelli – che metta al bando questa e altre moleste espressioni come apericena, attenzionare, piuttosto che..)
Zattere e pinocchi
Ma noi non siamo i resilienti, come la moda del pensiero impone, non siamo superfici elastiche che rimandano la forza dell’urto da dove è venuta.
Siamo semmai i risalenti, quelli che risalgono sulla barca, piccola ma solida contraddizione al nulla grosso come l’oceano sul quale rolliamo e beccheggiamo.
Ce la lasciamo imprimere addosso, caso mai quella forza; perché dobbiamo diventare più che essere. Siamo tutti pezzi di legno. O zattere su cui rimontare e festeggiare la vita, ancora naufraghi; o aspiranti pinocchi sotto una punta metallica che ci cava dal tronco e un po’ fa male. E non è finita, perché poi il mondo ci aspetta con le sue insidie, le ingannevoli promesse e i pochi maestri veri.
Sapere che dietro quella punta che scava c’è una mano e al comando di questa una volontà amante e in essa un disegno di bene, è il solo vero vantaggio competitivo dei credenti in Cristo. Siamo in vantaggio perché crediamo, certo, ma di più perché siamo creduti e ci sappiamo oggetto d’amore, mentre infuriano su di noi gli stessi colpi che finiscono addosso a chi non lo sa (e vorremmo sapesse).
Dal falò dell’Epifania di quest’anno, a cui si ha più fretta di appiccare il fuoco, vogliamo sottrarre diversi ceppi e anche certa presunta sterpaglia. Abbiamo camini domestici da far andare, lavoretti a scuola da far realizzare, ponti da stendere e su cui passare.