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Bisogna essere poveri per essere cattolici?

TAPACHULA

PEP COMPANYS | AFP

Samuel Gutiérrez - pubblicato il 02/12/20

Perché tutti i cattolici sono chiamati a vivere la povertà, e come va intesa?

“L’appello alla povertà è un appello a tutta la Chiesa, dalla gerarchia all’ultimo battezzato. L’importante è camminare, e ciascuno vedrà a che punto si trova”. Ad affermarlo è Joan Planellas, autore de La Chiesa dei poveri, in questo estratto da un’intervista pubblicata sull’ultimo numero del quotidiano Catalunya Cristiana.

Quali novità offre il Concilio sul tema della povertà?

Il primo aspetto si riferisce al campo della morale sociale, nel quale la povertà rappresenta un punto di inflessione. Si verifica un ampliamento degli orizzonti in relazione alle mediazioni della carità. La dimensione politica della carità richiede di andare alle cause, e non solo agli effetti. Bisogna impedire la globalizzazione della miseria. Il Vaticano II denuncia anche lo scandalo rappresentato dal fatto che le Nazioni più ricche del mondo siano soprattutto di tradizione cristiana.

In secondo luogo, il Concilio sottolinea la categoria sociale e la dignità del povero e dei poveri. Come afferma il decreto Apostolicam actuositatem, bisogna considerare il prossimo come l’immagine di Dio, in base alla quale è stato creato.

E il punto decisivo e sul quale il Vaticano II incide davvero, e che ha più ripercussioni, è quello della teologia esplicita sulla povertà. Questo tema ha implicazioni personali, istituzionali ed ecclesiali al di là dei postulati della semplice dottrina sociale della Chiesa.

È su questo punto che possiamo parlare della Chiesa dei poveri, perché abbiamo testi che affermano che l’opzione preferenziale per i poveri ha un chiaro fondamento cristologico e pneumatologico. La Chiesa deve fare come ha fatto Cristo. Il fondamento è Cristo, l’imitazione di Cristo.

La Chiesa supera la visione che riduceva la povertà a un appello del singolo cristiano o di una comunità o un carisma concreto. È una vocazione a cui ogni credente è chiamato, a livello individuale e sociale. Tutta la Chiesa è chiamata a vivere il cammino della povertà.

Non vivere la povertà è tradire il messaggio di Cristo?

A questo proposito, il Concilio parla di “cammino”, perché è molto difficile trasformare una chiamata come questa in legge. Ciascuno deve vedere dove andare. La chiamata a seguire Cristo ci chiede sempre di più. È un appello a tutta la Chiesa, dalla gerarchia all’ultimo battezzato. Bisogna camminare, e ciascuno vedrà a che punto si trova.

Nel corso della storia della Chiesa, abbiamo deviato da questo cammino?

Sì, a volte ci siamo allontanati. Nel libro, commento l’esempio di due grandi riformatori del XIII secolo, Francesco d’Assisi e Pietro Valdo. Entrambi hanno vissuto con estrema intensità la povertà evangelica, ma Valdo e i suoi seguaci erano estremamente critici e si opponevano ferocemente al clero cattolico. Pensavano che fosse impossibile salvare la Chiesa partendo da questa.

Negli scritti e nelle parole di San Francesco, invece, non c’è alcuna critica della situazione degli uomini di Chiesa. Francesco era convinto della forza e del potere di Dio, che agisce nelle persone e che nonostante tutto può rinnovare la Chiesa attraverso la Chiesa stessa.

Otto secoli dopo, un altro Francesco ha detto di volere “una Chiesa povera e per i poveri”. Tutti pensano che questa intuizione sia una novità, ma Papa San Giovanni XIII vi si è riferito chiaramente…

Un mese prima dell’inizio del Concilio, ha detto che di fronte ai Paesi in via di sviluppo la Chiesa si presenta com’è e come vuole essere: la Chiesa di tutti, soprattutto la Chiesa dei poveri. Di fatto, il Concilio si è sviluppato a partire da intuizioni come questa.

Non si tratta, quindi, di vedere solo la dimensione sociale o morale della povertà, ma una Chiesa che viva realmente le beatitudini, la semplicità evangelica. Solo una Chiesa di questo tipo renderà il Vangelo affidabile per il mondo. È per questo che Papa Francesco ha sottolineato questo aspetto.

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