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Caruso «Smettere di investire in armi, e iniziare a premiare chi tutela ambiente e persone»

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Kazoka | Shutterstock

Lucandrea Massaro - pubblicato il 30/11/20

Pace ed equa distribuzione delle risorse sono obbiettivi intrecciati strettamente, il Bene Comune passa da questo nodo

Economy of Francesco non è finito con l’incontro online di Novembre, ma prosegue negli intenti e nella riflessione, così come nella strutturazione dei gruppi sul territorio. Prosegue anche il viaggio di Aleteia dentro i vari Villaggi tematici che hanno animato questi mesi di preparazione, Villaggi abitati da giovani economisti, imprenditori, pedagoghi, politologi, guidati da figure “senior”, come il professor Raul Caruso, ordinario di economia politica, Direttore della rivista Peace Economics, Peace Science and Public Policy (rivista interdisciplinare incentrata sul tema dei conflitti, della pace e dello sviluppo, ndr), autore – tra i tanti suoi contributi – di un saggio dal titolo profetico “Economia della pace” e referente per Economy of Francesco del Villaggio Business and Peace.

Professor Caruso, in che modo le attività economiche influiscono sull’emergere di conflitti? Qual è un esempio concreto a cui fare riferimento?

«Le attività economiche che influiscono sui conflitti sono in genere in settori caratterizzati da rendite. é noto che in molti paesi in via di sviluppo lo sfruttamento di risorse naturali ha determinato non solo diseguaglianze ma anche incentivi al conflitto sia da parte dei gruppi che ne godono sia da quelli che ne sono esclusi. Basti pensare in passato alle guerre per i diamanti in alcuni paesi africani. Una corretta gestione delle risorse naturali che preveda la partecipazione dei diversi gruppi della popolazione al godimento delle risorse potrebbe limitare gli incentivi ai conflitti armati. In secondo luogo, discorso analogo potrebbe farsi anche per alcuni beni comuni che spesso sono gestiti in maniera predatoria da parte di alcuni gruppi a svantaggio di altri. Governare i beni comuni è da sempre una priorità per le comunità al fine di evitare l’uso della violenza. In ultimo, i cambiamenti climatici stanno influenzando gli incentivi ai conflitti perché stanno modificando in maniera strutturale le produzioni agricole e la disponibilità di terreni in molti paesi in via di sviluppo. Laddove le produzioni agricole sono influenzate in negativo dal cambiamento climatico allora chiaramente gli incentivi ai conflitti armati aumentano».

Qual è secondo lei un modello di mercato virtuoso che favorisca anche i paesi in via di sviluppo?

«Un mercato virtuoso potrebbe essere sicuramente quello in cui, in primo luogo, venga riconosciuto il valore sociale del fare impresa e quindi di conseguenza che contempla anche norme e riconoscimento legale per questo tipo di imprese (es. Società Benefit in Italia, BIC in Colombia, Ecuador e Perù, Enterprise an mission in Francia, benefit corporation in diversi stati USA). Nuove regole di mercato dovrebbero favorire i consumi e gli investimenti in questo tipo di imprese e i manager dovrebbero essere remunerati anche per l’impatto sociale generato e non solo per le performance economico-finanziarie. In secondo luogo, un mercato virtuoso si costruisce rimuovendo o comunque affrontando le cause strutturali delle diseguaglianze, garantendo in primo luogo l’accesso all’istruzione e alla sanità in particolare per i bambini più piccoli in modo tale che nel lungo periodo vi sia una maggiore eguaglianza nelle opportunità. Inoltre, alla luce di quanto detto prima in merito alle produzioni agricole, bisogna ripensare i mercati agricoli globali e immaginare un controllo dei prezzi a livello mondiale di molti beni agricoli in modo da garantire una maggiore certezza per gli imprenditori agricoli in particolare nei paesi in via sviluppo, limitando ad esempio le speculazioni»


ALESSANDRA SMERILLI

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Finora il ruolo svolto dalle grandi multinazionali nel favorire i conflitti e le loro cause non è stato secondario: cosa deve fare la comunità internazionale in questi casi per garantire prosperità ma anche pace?

«In molti casi, multinazionali e governi locali si sono trovate dalla stessa parte nel determinare conflitti. La comunità internazionale dovrebbe muoversi almeno lungo due obiettivi: in primo luogo non smettere di esercitare un’influenza nei confronti di molti governi non democratici perché questi si decidano ad implementare riforme in senso democratico, in secondo luogo la comunità internazionale degli stati dovrebbe una volta per tutte riconoscere alle imprese un ruolo sociale e quindi riconoscere sia in termini fiscali sia in termini di sussidi i benefici collettivi che hanno generato. Molte imprese, infatti godono di supporto da parte dei governi ma questo non è vincolato al rispetto di diritti umani a livello globale o al raggiungimento di obiettivi ulteriori rispetto a quello del profitto. I paesi democratici per primi dovrebbero vincolare il proprio supporto alle imprese a obiettivi di tutela o perseguimento di un bene comune e in ogni caso penalizzare quelle che si rendono colpevoli di violazioni gravi dei diritti umani o ambientali».

Quale può essere l’impatto delle pratiche di sostenibilità sociale e ambientale al fine di promuovere la risoluzione i conflitti nel sud del mondo? Cosa avete elaborato nel vostro Villaggio?

«Rispetto a questo tema, nel nostro Villaggio abbiamo evidenziato l’importanza di “dirottare” gli investimenti produttivi in settori meno forieri di conflitti. I settori in cui sono diffuse le pratiche di sostenibilità rispondono a questo. Nel nostro villaggio abbiamo pure evidenziato misure di contesto ampie, e quindi che in primo luogo sia necessario indurre i consumatori a preferire prodotti di imprese che non abbiano a che fare con il mondo dei produttori di armi, e poi chiedere ai governi di lavorare per il de-listing di tali aziende dai mercati borsistici per evitare che i produttori di armi siano incentivati a piazzare sul mercato sempre più armi a prezzi più bassi in particolare per i governi di paesi in via di sviluppo. Eliminando gli incentivi di mercato per i manager di tali aziende, sicuramente la diffusione dei dispositivi d’arma sarà più contenuta o comunque più facile da controllare. In pratica, meno armi meno guerre e quindi è necessario disinnescare i meccanismi di mercato nella produzione e commercializzazione a livello mondiale di armi. In secondo luogo, si è anche pensato che una vera economia per la pace non possa non nascere da una migliore conoscenza della pace in termini economici e quindi abbiamo proposto l’introduzione dei corsi di economia della pace in tutte le università del mondo».

Fin qui il commercio internazionale, ma “in casa nostra” invece è spesso il ruolo delle banche, del settore finanziario a creare situazioni di tensione e di emarginazione. Cosa possono fare gli investitori etici nella risoluzione dei conflitti sociali? E come deve cambiare il mondo del credito per generare una crescita equa?

«Gli investitori istituzionali devono abbandonare le imprese che producono mali invece che beni. In primo luogo, smettere di investire nei gruppi produttori di armi e poi investire in gruppi industriali che rispettino obiettivi di sostenibilità ambientale e sociale. Il mondo del credito deve evolversi e garantire credito anche a quelle imprese che si propongono obiettivi di impatto sociale positivo. in pratica, nelle banche devono imparare a leggere non sono i bilanci tradizionali ma anche le rendicontazioni non finanziarie in cui l’impatto sociale e ambientale delle imprese viene evidenziato»

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