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Matrimonio: voglio amare il mio coniuge, ma non ci riesco

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Juan Ávila Estrada - pubblicato il 24/11/20

Se tutti sogniamo un matrimonio che sia per sempre, perché l'amore finisce?

Nella sua Lettera ai Romani, San Paolo dice: “Io so che in me, cioè nella mia carne, non abita alcun bene; poiché in me si trova il volere, ma il modo di compiere il bene, no. Infatti il bene che voglio, non lo faccio; ma il male che non voglio, quello faccio” (7, 18-19). Perché esiste questa lotta così amara e apparentemente infruttuosa tra il voler fare e il fare?

L’esperienza umana ci porta a scoprire la nostra miseria e l’enorme abisso esistente tra le buone intenzioni e l’esercizio del bene. Comprendiamo che “conoscere” il bene non è sufficiente per “fare” il bene, e che distinguere tra il bene e il male non ci rende specialisti né vittoriosi nella vita virtuosa a cui aneliamo con tutto il cuore.

Cosa porta a questa profonda rottura interiore, che non ci permettere di essere come cerchiamo di essere in buona fede? Per rispondere a questa domanda, è importante avere atteggiamenti di carattere religioso (non mi riferisco a un catalogo di divieti o mandati morali, di quelli che abbondano dall’antichità, ma al senso di “relazione” che abbiamo con il Trascendente).

Per parlare di rottura interiore bisogna riconoscere l’esistenza di una forza di origine soprannaturale che ci spinge proprio a fare quello che razionalmente detestiamo, ma che nell’ambito della volontà ci sembra gradevole, piacevole.

Coscienza morale

Fin da bambini, si forma in noi una coscienza della moralità degli atti; impariamo a differenziare, a poco a poco, ciò che è giusto da quello che è sbagliato. Nonostante ciò, e con tutto questo bagaglio intellettuale, percepiamo che sbagliamo costantemente al momento di prendere decisioni, che corrispondono più ai nostri capricci che alla certezza del bene.

Non possiamo negare che l’essere umano abbia vissuto da sempre una situazione di esplosione interiore, per la quale trascina se stesso e tutti gli altri in un’ecatombe spirituale che lo fa sentire miserabile e ipocrita nei confronti di se stesso.

Il nostro cuore sembra diviso: pensiamo una cosa, ne vogliamo un’altra e ne facciamo un’altra ancora; riuscire a integrare tutto questo è un grande compito che si realizza per grazia di Dio. Senza questa grazia, le nostre azioni tenderanno a portare un sigillo di incoerenza, perché se non c’è coesione tra i nostri atti, ciascuno di loro prenderà una direzione diversa, spesso opposta, o almeno parallela, ma non si incontreranno mai.

Nel campo dei rapporti affettivi riusciamo a percepirlo facilmente, specialmente quando ci innamoriamo: la ragione vuole fedeltà, ma la pelle chiede esperienze nuove e volatili. Vogliamo essere fedeli, ma questa fedeltà non sorge come per magia, anzi: di fronte alla prima tentazione, tendiamo a cadere, gettando via tutti gli splendidi desideri del nostro cuore.

Falsa argomentazione

Gli innamorati vogliono essere fedeli; l’estasi affettiva in cui si trovano grida loro che sono disposti anche a morire con l’altra persona; sembra loro inconcepibile che qualcuno possa porre fine a un tale idillio. Il tempo, la decantazione degli affetti e la fine della passione portano però spesso all’infedeltà, sostenendo che l’amore è finito.

Sono certo che tutti coloro che arrivano al matrimonio desiderano essere fedeli; non riesco a immaginare che possa esistere un’ipocrisia così grande al punto che una persona si sposi per essere infedele. Il desiderio di fedeltà è inerente all’amore. Quando si ama, non si vuole né si accetta l’infedeltà. Malgrado ciò, esiste una forza enorme che ci porta a cadere e a fare proprio quello che non vogliamo fare, pur sapendo che avrà conseguenze negative sulla nostra vita.

Cosa possono fare gli sposi per riuscire a vivere coerentemente il loro matrimonio, di modo da riuscire a integrare la volontà e l’azione?


EUCHARYSTIA

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6 passi

Primo: comprendere che il matrimonio sacramentale è molto più del matrimonio civile o dell’unione libera, e quindi è importante contare sulla grazia di Dio, attraverso i sacramenti. Non possiamo presentarci davanti a Dio perché Egli benedica il rapporto e poi voltargli le spalle al momento di viverlo.

Secondo: imparare che l’amore non è un “essere fatto” ma un “farsi” costante, ovvero non c’è nulla di scritto né esiste un “e vissero sempre felici e contenti”, ma tutto dev’essere scritto, e a quattro mani.

Terzo: non spaventarsi per le crisi né per l’apparente “perdita di passione”; è qui che la coppia fa il passo dell’amore, mantenendo la ferma volontà nei confronti della persona che si è scelta per condividere la vita. La prima tappa dell’amore è proprio la passione, che non è altro che un impatto dei sensi. Non possiamo, però, fermarci alla passione, perché niente di essa è duraturo. Bisogna fare il passo dell’amore profondo, che tocca direttamente la dimensione spirituale umana, ben al di là degli aspetti psicologici o fisiologici.

Quarto: affrontare serenamente la crisi, non evitarla, pensando che non stia accadendo nulla; bisogna dare un nome alle cose, e tutto nella giusta proporzione. Non inquietiamoci se il desiderio diminuisce. Bisogna dialogare. Non sempre sarà possibile migliorare tutto, ma almeno non esigeremo dall’altro che indovini ciò che pensiamo o proviamo.

Quinto: comprensione, ovvero riconoscere che l’uomo non pensa come la donna, che ciascuno ha il proprio modo di intendere il mondo, e quindi il modo di amare di ciascuno può essere diverso.

Sesto: accettare che abbiamo bisogno della grazia di Dio: “Senza di me non potete far nulla” (Giovanni 15, 5).

L’apostolo Paolo lancia una domanda, sotto forma di grido e richiesta di aiuto: “Mi trovo dunque sotto questa legge: quando voglio fare il bene, il male si trova in me… Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte? Grazie siano rese a Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore” (Romani 7, 14-25).


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