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Perché credere in Dio durante la pandemia? Che bisogno ho di farlo?

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By Aquarius Studio | Shutterstock

Gelsomino Del Guercio - pubblicato il 17/10/20

Don Marco Pozza nel suo ultimo libro, “Dio che vuoto non è” risponde a questa domanda. Dio è colui che assolve agli obblighi di paternità per tutti gli uomini. Condivide con noi dolore e morte

Qual è il motivo che mi spinge a credere in Dio sopratutto in questo periodo di pandemia? Prova a rispondere don Marco Pozza, cappellano del carcere di Padova, che scrive per San PaoloCiò che vuoto non è, una riflessione su fede, vita e fragilità alla luce dell’esperienza della pandemia di questi mesi.

“Patente e libretto”

Dio, dice don Marco è «il nome più (ab)usato della storia, la più pesante di tutte le parole: imbrattata, lacerata, beffeggiata. Ammazzata, questo no: pare più intelligente la condanna all’esilio, l’esposizione al ridicolo. Dio non è stato sfrattato dalla città degli uomini: molto più semplicemente Gli abbiamo ridotto gli spazi abitativi. Se lo incontrassimo per strada, Gli domanderemmo i documenti: “Patente e libretto, per cortesia?”».

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Don Marco Pozza.

Io è l’abbreviazione di Dio

Il cristiano, evidenzia il giovane sacerdote, «quando usa il pronome “io” è come se esibisse il proprio stato famiglia: io è abbreviazione di Dio, ogni figlio è l’abbreviazione del padre. Vive di un’intelligenza tosta, dunque, il cristiano. Si ostina a ripetere quel nome per allenarsi a pronunciare bene il proprio: “Credo in Dio, Padre onnipotente, Creatore del cielo e della terra”».

Il grido dell’Innominato

Dio, dunque, è all’inizio del parlare di tutti: di chi lo loda o lo bestemmia, lo nega o lo abbraccia, lo cerca o lo rifiuta. Credere nell’intervento di Dio durante la pandemia, per esempio, è un pensiero che è passato per la testa a tanti di noi? «Il suo nome è inciso dappertutto – prosegue l’autore di “Ciò che vuoto non è – così da essere esposto alle intemperie del tutto: sulle lapidi a bordo strada, sulle rocce delle montagne, sulle cinture dei nazisti, sul tufo granulare delle catacombe. Nel cuore dell’uomo: “Dio! Dio! Dio! Se lo vedessi! Se lo sentissi! Dov’è questo Dio?”, è il grido dell’Innominato nel XXIII capitolo de I promessi sposi. Il grido sconsolato di chi, per amore, ammette che in cuore suo batte forte la presenza di un’assenza».

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Dio è sempre presente nella nostra vita. E' colui che ci solleva dai dolori ed è accanto a noi nei momenti di gioia.

Un padre che non sfugge agli obblighi di paternità

Ma qual è il Dio in cui il cristiano giura, apertamente, di credere? «È padre”, rispondiamo tutti assieme – osserva don Marco – La sua paternità, dunque, è l’attestazione più profonda che il mondo degli uomini non è frutto del caso: c’è un Padre che non fuggirà mai dai suoi obblighi di paternità».

“È onnipotente mio Padre, sai?” ama dire il cristiano, rammenta il cappellano del carcere di Padova. «Se, dunque, da padre può tutto il bene possibile per i figli, da dove ci viene tutto questo male? Se esiste, da dove viene il male? Ma se non esiste, da dove viene tutto questo bene? Lo professiamo pure Creatore, l’attestazione più alta di fantasia: dal nulla ha creato tutto e tutti, per poi amare ciascuno come se fosse l’unico pezzo d’arte presente nel mondo. Di padri che abbandonano i figli è piena la storia, di onnipotenze illusorie è zeppa la lista, di creazioni tarocche è ubriaca la fiera. Perché Dio dovrebbe essere diverso?». Allora il coronavirus, la pandemia che ci sta mettendo in ginocchio è la dimostrazione che non dobbiamo più credere in Dio? Eh no. La domanda è mal posta.




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Il Credo

Dio «negli incidenti interverrà, restaurerà le mura cadenti, nulla di tutto ciò che è bene per l’uomo si sottrarrà dal farlo». C’è da fidarsi oppure no, allora? «Non ci si fida di chiunque, ci si fida di chi ha dato prova, nel tempo, di essere affidabile – ha confidato a don Marco ilfilosofo Salvatore Natoli – La fiducia si trasforma in dare fiducia a partire dall’affidabilità».

Il “Credo” è la preghiera che risponde a questo, è l’atto con cui “doniamo” la nostra fiducia al Signore. «E’ il biglietto da visita del cristiano stesso: dice a chi il cristiano crede, in che cosa crede, perché crede. È il modo più originale per professare davanti al mondo la nostra storia: siamo venuti al mondo perché qualcuno ci ha pensati (“Padre, Figlio e Spirito Santo”); siamo della stessa famiglia, la Chiesa, di cui fanno parte anche coloro che non ci sono più (“la comunione dei santi”)».

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Dio è il Padre di famiglia che assolve a tutti gli obblighi della paternità. A lui ci affidiamo nel "Credo".

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Dio condivide con noi il dolore e la morte

Eppure negli ultimi mesi, per alcuni credere in Dio in tempi di pandemia è apparso un controsenso. Scrive don Marco, che è stata «la campanella che Dio suona per dire: “Adesso finite voi, che inizio a divertirmi io!”. Scusate, di un Dio così non so che farmene, ve lo lascio volentieri: un Dio irrazionale, non solo diabolico».

«Leggere questa situazione come fosse un castigo di Dio è stato come firmare un’autocertificazione per dichiararsi fuori dalla Grazia di Dio, letteralmente. “È fuori dalla grazia di Dio!”, diciamo di chi parla a sproposito. È la Grazia di Dio, infatti – conclude don Marco – a offrire parole giuste in tempi apparentemente ingiusti: “Dio si fece carne, e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14). Può, dunque, il Dio che ha creato l’umanità volerla poi distruggere infettandola di male? “La Chiesa dov’è?”, gridava ai quattro venti qualcuno. Non l’hanno vista? Tirate via le eccezioni, bastava guardare cosa stesse facendo il prete: stava pregando Dio. “Con tutto quello che c’è da fare fuori, è sempre chiuso in chiesa!”, sottolineavano in tanti. Barricato nella chiesa (non in canonica) per un semplice motivo: sapeva, lui, che il Dio cristiano non è un Dio che condivide il dolore e la morte, è un Dio che libera dal dolore e dalla morte. La differenza è un abisso: lo condividesse e basta, sarebbe un Uomo altruista come tanti. Invece l’Uomo in causa è anche Dio: non liberasse dal dolore e dalla morte, non sarebbe Dio».

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