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La poetica francescana come antidoto a una spiritualità frustrata

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Fotogramma dall'episodio 19 della prima serie di Masha e Orso

Giovanni Marcotullio - pubblicato il 01/10/20

“Oh, se avessi sposato quell'uomo devoto e generoso invece di mio marito…” “Ah, se i figli li avessi fatti con quella brava infermiera invece che con mia moglie”: sono frasi bruttissime ma che risultano dall'esito (neppure ultimo) di tentazioni che cominciano con le specie di una grande devozione. C'è un testo di san Francesco che torna quanto mai utile nel frangente.

Attualmente mi trovo in uno stato spirituale che non saprei come definire, se non forse con Ungaretti: «Si sta come d’autunno, / sugli alberi, / le foglie». Trovo conforto nella preghiera. Andrei a messa ogni giorno, ma capisci che con i miei tempi…

Con queste parole pochi giorni fa un’amica mi confidava il suo desiderio di una più costante e intensa dedizione alle cose di Dio, e personalmente sottoscrivo tanto le sue parole da spingermi a confidare apertamente che comincio quasi ogni confessione accusando questa mancanza, la quale è tale meno nel senso di colpa che in quello di lacuna, e che invoca la grazia ancora più che la misericordia.

Noi, dis-tratti da vanagloria e/o disperazione

Si tratta di un moto dello spirito in realtà nient’affatto raro né elitario: quel sentimento agrodolce è anzi lambito da una larvata malinconia in cui stanno già annidate svariate imperfezioni, le quali possono facilmente svilupparsi in insidiose tentazioni che fanno capo principalmente a due filoni.

  1. Sentirsi così avanti nel cammino da voler pregare più di quanto si possa (e compiacersene)
  2. Sospettare di essere sulla strada sbagliata, che distoglie dalle aspirazioni più alte (e disperarsene)

Le due non sono reciprocamente esclusive, anzi chi ha l’una può essere affetta pure dall’altra, benché non esattamente nel medesimo istante: come per cavare un chiodo da un punto in cui sia stato piantato lo si estrae poco a poco strattonandolo da una parte all’altra via via più vistosamente, così il Nemico dell’umana natura dis-trae gli uomini dal loro destino sballottandoli fra vano orgoglio ed empia disperazione. Che egli cominci da un punto o dall’altro dipende fondamentalmente dalle disposizioni individuali della persona in causa (c’è il tipo umano più introspettivo, meno incline a una vanagloria palese ma più esposto alla cupa superbia, e c’è quello più estroverso, che rischia più di dissiparsi nel “fare” che di disperdersi nell’esame della coscienza) e dalle complesse caratteristiche della sua situazione attuale (un momento di gioia, di dolore, di fatica, di successo, di prova, di crescita o di abbattimento…). In tutti i casi – come si vede, nessuno scappa –, l’uomo si trova simile a quell’escursionista che – per ammirare il panorama o per denigrarsi di fronte alla distanza rimanente dalla meta – senza neppure avvedersene smette di avanzare, di procedere, di camminare. Insomma smette di essere quello che è e che deve essere.




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Mi viene in soccorso – in questi giorni che ci accompagnano alla festa del Patrono d’Italia (nonché alla firma dell’enciclica di Papa Francesco Fratelli tutti) – un celeberrimo testo, quello della “Lettera a un ministro”, che il Poverello produsse in latino:

A frate N… ministro. Il Signore ti benedica. Io ti dico come posso, per quello che riguarda la tua anima, che quelle cose che ti impediscono di amare il Signore Iddio, ed ogni persona che ti sarà di ostacolo, siano frati o altri, anche se ti percuotessero, tutto questo devi ritenere come una grazia. E così tu devi volere e non diversamente. E questo tieni per te in conto di vera obbedienza del Signore Iddio e mia, perché io so con certezza che questa è vera obbedienza. E ama coloro che ti fanno queste cose. E non aspettarti da loro altro, se non ciò che il Signore ti darà. E in questo amali, e non pretendere che siano cristiani migliori. E questo sia per te più che il romitorio. […]


Assisi, Italy

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Il romitorio (guai a non averlo!) e le sue infestazioni

Il romitorio! E chi non ne ha (almeno) uno? Un cantuccio spirituale/esistenziale in cui tuteliamo la nostra coscienza (e disgraziato quell’uomo che non si conserva quello spazio di silenzio e di riflessione)… Ma se tutti (noi che ambiamo/proviamo ad avere una vita interiore decente) sappiamo difendere questo stanzino del cuore con le unghie e con i denti, il più delle volte lo tuteliamo solo dagli altri – che sartrianamente vediamo come l’inferno – e non dalle sue insidie più grandi, che siamo noi stessi e il Nemico. «Oh, se avessi quelle due ore per studiare pianoforte…» (o “per fare adorazione”, “per praticare scherma”, “per servire alla Caritas”): non lo diciamo? E questo è solo il grado 1 della tentazione, quando ancora l’universo morale non è scosso direttamente. «Oh, se mio marito volesse pregare la Liturgia delle Ore con me tutti i giorni…» («Oh, se mia moglie volesse venire a Messa con me tutti i giorni…»): grado 2, dove i pilastri stessi dello stato di vita vengono attaccati, ma non direttamente. «Ah, se me ne fossi andata missionaria in Africa/India/America Latina invece di studiare Giurisprudenza per far contenti i miei…» («Ah, se solo potessi ritirarmi in un monastero immerso in qualche bella foresta e lì, dimenticato da tutti, ritrovarmi!»): grado 3, dove la confusione corrode attivamente e direttamente i mezzi principale della santificazione delle persone.


young woman thinking

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Qualcosa del genere doveva aver lamentato l’anonimo ministro col Fondatore dei Minori, il quale gli risponde “come può” (imparino certi padri spirituali che si credono oracoli! Impariamo tutti quando proprio occorre che offriamo qualche consiglio) e gli espone subito il grande paradosso: tutto quel che (fuori di te!) ti ostacola nell’amore al Signore dev’essere ritenuto “una grazia”. «E non bisogna volere diversamente», ché questa è “vera obbedienza” (dalla sintassi si capisce che s’intende nel portato etimologico di “restare in ascolto e a disposizione”). Così commenta il passo lo storico Gianfranco Pani, de La Civiltà Cattolica, nel numero 4087 (in uscita proprio sabato 3 ottobre, alla vigilia della solennità francescana):

Le difficoltà che incontri e che ti sembrano insuperabili devi considerarle e accoglierle in modo nuovo. Nel discernimento egli sottolinea che le nostre relazioni con gli altri sono certamente luogo di problemi, di incomprensioni e di scontri, ma anche occasione per crescere, per maturare spiritualmente. E tutto questo è grazia. Francesco riporta alla vita quotidiana il senso dell’esortazione spirituale di Paolo ai cristiani di Roma: «Noi sappiamo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio» (Rm 8,28). Ribadisce quindi che le relazioni con gli altri, se costituiscono una ragione di fondo delle difficoltà, sono anche – inaspettatamente – l’occasione di una formazione spirituale; a confronto con i problemi della vita si matura, e questi sono un’opportunità in cui si manifesta il Signore. Talora le sorprese di Dio si rivelano là dove uno non le avrebbe mai immaginate. Guardando in modo nuovo e diverso il proprio modo di vivere e la prassi con cui ci si rapporta agli altri, si può cogliere proprio nelle difficoltà un segno del Signore.

Giancarlo Pani, “Tutto e grazia”: San Francesco nello spessore della storia, in La Civiltà Cattolica 4087 45-52, 47

“Frati coniugi” e “genitori ministri”

E quante volte le preoccupazioni di un “frate ministro” sembrano l’omologo religioso delle cure parentali, che sono in una famiglia tra le maggiori fonti di pensiero e anche di affanno, per non dire di dissenso, di screzio e di lite. Da “dove ho sbagliato con mio figlio?” a “ecco, hai visto cosa si ottiene coi tuoi metodi educativi?!” il passo è sempre fin troppo breve, ma anche su questo la lettera di Francesco al (per noi) anonimo ministro è luminosa:

non ci sia alcun frate al mondo, che abbia peccato, quanto è possibile peccare, che, dopo aver visto i tuoi occhi, non se ne torni via senza il tuo perdono, se egli lo chiede; e se non chiedesse perdono, chiedi tu a lui se vuole essere perdonato. E se, in seguito, mille volte peccasse davanti ai tuoi occhi, amalo più di me per questo: che tu possa attrarlo al Signore; ed abbi sempre misericordia per tali fratelli.

[…]

Se qualcuno dei frati, per istigazione del nemico, avrà peccato mortalmente, sia tenuto per obbedienza a ricorrere al suo guardiano. E tutti i frati, che fossero a conoscenza del peccato di lui, non gli facciano vergogna né dicano male di lui, ma ne abbiano grande misericordia e tengano assai segreto il peccato del loro fratello, perché non i sani hanno bisogno del medico, ma i malati [Mt 9,12].

[…]

E se fosse caduto in qualche peccato veniale, si confessi ad un fratello sacerdote. E se in quel luogo non ci fosse un sacerdote, si confessi ad un suo fratello, fino a che possa trovare un sacerdote che lo assolva canonicamente, come è stato detto. E questi non abbiano potere di imporre altra penitenza all’infuori di questa: «Va’ e non peccare più» [cfr. Gv 8,11].

Fin dall’esperienza giovanile di Rivotorto, Francesco invitava i frati a considerarsi “madri” gli uni degli altri: nessuno stupore che delle madri e dei padri oggi possano pensare spontaneamente ai loro figli quando leggono le parole del Fondatore sul frate «che abbia peccato quanto è possibile peccare» e che va a incrociare lo sguardo del ministro. Come un padre, come una madre, così faccia il fratello: non aspetti che il perdono gli venga richiesto, come se potesse concedere qualcosa di cui egli stesso non abbisogni…




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Così vengono esorcizzate le tentazioni sull’educazione del figlio, che dopo i primi due gradi sopra esposti arrivano a “ecco, non era questa la mia strada” (/“non era questo/a l’uomo/la donna che dovevo sposare” /“con altri sarebbe stato tutto più facile…”). No, fratelli, sorelle e madri: ciò che ci tiene sulle spine e non ci lascia accomodare dev’esserci “più caro del romitorio” perché se Dio è lì e non qui noi non faremmo un grande affare – nelle nostre vite – a ritirarci in esso e affogare nel rimbombo delle voci nostre e del Nemico.


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L’aridità tecnica sottesa a ogni verso ben tornito

Mi torna in mente un’altra conversazione, avuta invece con un amico, il quale mi diceva: «Tutte le storie cominciano in poesia e finiscono in prosa, quelle d’amore come quelle professionali e socio-politiche…». C’era del vero (e molto) in quel che diceva, perché è vero che l’amore dopo anni di matrimonio è diverso dall’amore dopo settimane di frequentazione o dopo mesi di fidanzamento: ma non perché non sia altrettanto bello (anzi di più), o perché sia meno poetico. Questo vorrei rispondere anche a padre Pani, che nella prima pagina dell’articolo citato sopra, introducendo la lettera al ministro, scriveva:

Se si confronta questa lettera con diversi testi successivi – per esempio, con l’immagine che ne danno i Fioretti –, la differenza è enorme. È noto tuttavia che tali testi, scritti a più di un secolo dalla morte di Francesco, ne esaltano in modo eccessivo, e talora favoloso, la figura e la santità, quale «modello ascetico inarrivabile, ma più da ammirare che da imitare, perché autore di atti e scelte che solo lui poteva compiere».

Ivi, 45

E sì, bisogna riconoscerlo: quando si legge l’episodio delle rose (che non si trova nei Fioretti ma che in qualche misura ne condivide lo spirito) si è tentati di dire che “certo, anch’io se potessi pregare in una pacifica cappellina medievale e avessi lì fuori a portata di mano un roveto, farei come lui…”; poi vai a Santa Maria degli Angeli, passi dietro la Sagrestia e osservi le rose coltivate proprio a memoria di quell’episodio, e ti dici che “comunque per queste cose bisogna essere san Francesco”.




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La mia impressione è che il racconto di frate Francesco Bartoli non confligga affatto con la lettera di Francesco, né che da una parte vi sia la poesia e dall’altra la prosa. Direi piuttosto che da una parte balena la lucida bellezza dei versi, dall’altra si scopre il faticoso labor limæ che la stessa è costata, giacché si cresce nella santità – come sta scritto: «Corro la via dei tuoi precetti / perché tu dilati il mio cuore» (Sal 118[119],32) – proprio quando quella lacuna che in tanti sentiamo, tesa tra la nostra miseria e la misericordia di Dio, viene curata e custodita con amore.

Quando mette le mani sulla tastiera della chitarra o del pianoforte la mia primogenita imita la nostra beniamina Masha e si compiace nel citarla: «A che mi serve imparare le scale? Posso suonare improvvisando!». Ed ecco qui esemplificato il falso dilemma: no, in realtà solo chi ha imparato le scale (e molto altro!) può suonare addirittura (come fa Orso) improvvisando. E le scale, si sa, può essere “duro calle” salirle. Perfino se sono le nostre.

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