Intervista a una ragazza che è partita per un viaggio in Oriente che è stato l’innesco della sua conversione. Oggi ha scelto di a mettere al servizio di Dio il suo talento per la moda, lavorando nel carcere di Verona.Chesterton diceva che la strada più breve per arrivare a casa è fare il giro del mondo. Occorre, cioè, un viaggio faticoso in cui la lontananza ci doni occhi nuovi per vedere quanto è prezioso quello che è a portata di mano e a cui non badiamo più.
Ho letto il libro Dove sorge il sole rinasce la vita di Nadia Zandomeneghi con quest’eco nel sottofondo dei miei pensieri. La sua è una storia tanto reale quanto simbolica. Partire, mollare tutto per un luogo lontano, realizzare un sogno: sono ipotesi che stuzzicano i giovani e corrispondono a una ricerca interiore che si traduce in un viaggio geografico con una meta lontana. Perché, in realtà – e lo diceva sempre Chesteton – l’io è la stella più lontana del cosmo. Si viaggia per conoscersi, è vero ed è uno stereotipo fin troppo abusato; l’ipotesi cristiana approfondisce questo desiderio umano dell’esplorazione: la vita é quel viaggio – o vocazione – che ci è dato da Dio per conoscere chi siamo dentro gli eventi che ci segnano.
A una breve recensione, per farvi assaggiare il succo di questa storia, segue un’intervista a Nadia, perché il suo presente è ricco di frutti clamorosi che sono nati proprio dalla sua conversione. La sua trama comincia con una ragazza atea che da Verona parte per l’Oriente e poi si ritrova a fare i conti con un incontro fulminante con Dio. Oggi quella ragazza è una moglie felice e svolge il suo lavoro e la sua missione nel carcere di Verona. Come possono stare insieme tutti questi pezzi così diversi? Scopriamolo.
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Oriente
Quante volte la meta dei viaggi che si sognano a occhi aperti è l’Oriente? Può essere che sia perché è una parte del mondo tanto diversa, per cultura, stile di vita, lingua. Ma senz’altro c’entra qualcosa anche il fatto che là il sole sorge. Andare a Oriente, anche inconsapevolmente, è dirigersi alla ricerca di un’origine, significa dar voce a un desiderio di capire da dove inizia la storia del mondo, dell’esserci, della vita.
Quando il Giappone fa breccia nella vita di Nadia, lei è a Verona e lì ha la sua famiglia e un fidanzato molto amato, Pietro. La fede non c’entra nulla con la sua vita:
Non avevo mai guardato Dio. Non avevo ricevuto il battesimo e alle elementari mi ero sentita discriminata dai miei compagni perché non facevo la prima Comunione. A quel tempo, con la testa di una bambina, arrivai a credere che Dio non esistesse e che fosse solo un’invenzione per tenere buoni i bambini.
Conseguita la laurea, Nadia si regala un viaggio nella terra che ha sempre abitato i suoi sogni; trascorre, quindi, un periodo estivo in una zona rurale del Giappone, a Onuma. È la prima volta che si allontana così tanto dalla famiglia e da Pietro, dentro ha un borbottio di domande, quelle di chi non sa bene cosa fare della propria vita. A Onuma vive un tempo meraviglioso che coincide con una sua fioritura personale: il luogo, le tradizioni, le nuove amicizie innescano il lei il desiderio di creare, e si mette a fuoco un’ipotesi di lavoro che la riempie di entusiasmo e voglia di fare. La strada di Nadia diventa quella di creare abiti e ipotizzare un percorso lavorativo nella moda con base in Giappone.
Ed è questo l’innesco esplosivo di una crisi che le comporterà dubbi, fatica, tanta sofferenza ma anche l’approdo a una meta che non aveva messo in conto. Il Giappone scatena in lei un travaglio, e il viaggio di Nadia – anche se si dipana in un via vai geografico – diventa soprattutto un’esplorazione di sé, con tante cadute e altrettanti slanci. La domanda di sottofondo resta: qual è il mio posto?
Un vestito cucito su misura
Lo strappo di un tessuto è una breccia, che assomiglia tanto a una ferita. Due lembi si spezzano, quando vengono tagliati o dopo essere stati tirati troppo in direzioni opposte. Il Giappone chiede a Nadia di spezzare tutto, anche di recidere il rapporto con il suo fidanzato.
Eppure dietro una trama che sembra sfaldarsi, rompersi in cocci, c’è un Dio paziente che sta cucendo un vestito ad hoc per Nadia. Segni, incontri, una grande capacità di prendere ogni cosa sul serio e paragonarla al proprio bisogno di vera felicità sono le cuciture che rimarginano ciò che la sua crisi ha spezzato. Seguire la propria passione è sempre giusto? L’amore viene prima di tutto? La felicità è un’illusione? Perché la vita ci mette di fronte a scelte che sembrano inconciliabili?
Tutte queste domande lasciate alla sola capacità umana di discrezione esplodono in mano a Nadia, fino al momento in cui, come un imprevisto così assurdo e insieme così corrispondente, Dio si fa vicino in un incontro che accade in un giorno e in un’ora precisi (accadde così anche a Giovanni che annotò nel Vangelo «erano circa le quattro del pomeriggio»). Curiosamente a Nadia è accaduto il 5 gennaio, proprio come una vera Epifania:
Ero tornata da poco a casa dal lavoro e mi ero seduta sul divano. Guardai il soffitto e rimasi in silenzio per alcuni istanti. Mi rivolsi a Dio. Gli parlai. Provai a dirgli ciò che sentivo: «Io comincio a credere che esisti. Forse sei proprio tu questa pienezza? Se esisti davvero, ti prego, svuotami! Ho troppo dentro di me, il mio cuore non regge più tutto questo amore e dolore che mi porto dentro da anni».
Svuotami, è una delle parole che mi ha toccato di più in questa storia. Qui c’è un’anima che da padrona di tutto chiede di diventare figlia, vuole liberarsi dei pesi a cui non sa dare un senso e desidera affidarsi alle mani di un Padre. Nel suo caso la conversione ha anche un risvolto visivamente concreto: Verona, il mai dimenticato Pietro, la passione per la creazione di abiti, il desiderio di impegnarsi per gli altri … tutto diventa parte di una trama nuova che proprio l’affidamento a Dio rende possibile. Tutto è fatto nuovo, ed è proprio ciò che era sempre stato vicino e noto; tutto comincia da un gesto di vero svuotamento e pulizia, il Battesimo.
Cara Nadia, ho letto il tuo libro e ne ho fatto una presentazione per i nostri lettori di Aleteia For Her. Come è nata la voglia di scriverlo?
All’inizio il libro non volevo neppure pubblicarlo, poi è venuto da sé. L’ho scritto per la gratitudine immensa che avevo per l’incontro con Dio. Quando la conversione è un evento personale così forte, ci si scontra coi giudizi – anche coi propri giudizi; ed è quella dinamica che chiude il cuore e lo blocca. Con la fede sono riuscita ad andare oltre e, sinceramente, scrivere della «me» che ero prima del Battesimo non è stato così problematico. Dal momento del Battesimo io avevo cominciato a scrivere un diario e nel mettere giù quelle parole mi sono resa conto che c’era una linearità, voluta dal Signore, nel percorso tortuoso della mia vita. In questo senso, ho pensato che Lui volesse che fosse una storia da leggere.
Il libro arriva fino al tuo matrimonio con Pietro e alla chiarezza personale di dedicare le tue competenze a capacità nell’ambito sartoriale al servizio per gli altri. Com’è il tuo presente?
Sì, il libro si ferma al mio matrimonio con Pietro, cioè al settembre 2019. Da allora fino a marzo c’è stata una battaglia con me stessa, per capire quanto egoismo ci fosse nella mia scelta di unire il mio lavoro e il servizio a Dio. Mi sono confrontata su questo con la mia madre spirituale. Mentre cercavo di discernere il mio groviglio interiore, e liberandomi delle forme di egoismo subdolo, è arrivata la telefonata della Presidente di Progetto Quid. È un’idea nata da Anna Fiscale, dopo un suo periodo di crisi, per aiutare le donne vittime di tratta e di violenza. Ha creato una cooperativa nell’ambito della moda in cui si utilizzano i tessuti di rimanenza delle aziende e da lì è fiorita un’attività che oggi dà lavoro a 120 persone.
Lo scorso marzo Anna mi ha cercata proponendomi di lavorare nel carcere maschile di Verona ed è stata la prova per mollare le mie reticenze e constatare che, ancora una volta, il Signore aveva provveduto preparare un sentiero per me. Mi sono che detta avrei provato, mettendo anche in conto che potevo impazzire e capire che non era la strada per me.
Che tipo di impatto c’è stato nell’incontrare la realtà carceraria?
Il carcere è una realtà molto complessa, ha delle dinamiche sociali molto amplificate. Abituarmi a questa realtà è stato molto difficile. La Provvidenza è intervenuta prepotentemente. Va detto che ho cominciato questa esperienza proprio nel momento del lockdown: a casa vivevo la quarantena e poi in carcere vivevo la quarantena dei detenuti. Il laboratorio sartoriale dove lavoro è situato al piano del penitenziario dove ci sono i semi-liberi e i nuovi giunti e dunque era quello in cui il pericolo di contagio era più elevato. Il lavoro era nuovo, la pressione dell’emergenza sanitaria era ai livelli più drammatici; ecco, arrivata alla Settimana Santa io ho maturato la decisione di mollare tutto. Fatalità, la sera del Venerdì Santo sono tornata a casa – stanca, arrabbiata, frustrata – e ho visto in TV la Via Crucis di Papa Francesco tutta dedicata al carcere. Mi ha dato una forza incredibile, mi sono ricordata che sono arrivata al carcere dentro il cammino provvidenziale che ho fatto e sto facendo. Quella Via Crucis mi ha fatto capire che dovevo restare lì. E meno male! La situazione Covid è via via migliorata, io mi sono abituata al contesto dei detenuti e poi a giugno è arrivata la pubblicazione del libro: molti detenuti hanno avuto occasione di leggerlo e ha fatto loro del bene. Uno di loro mi ha detto: «La tua storia è molto simile alla mia, solo che la mia è piena di cose brutte mentre la tua alla fine ne incontra di belle». Sono contenta che sia uno strumento che li fa riflettere.
Dentro il laboratorio cosa succede? Tu insegni sartoria?
Sto con i carcerati per sette ore al giorno. Devo gestire la produzione che Progetto Quid ci dà, non si tratta ovviamente di grossi numeri, ma ci sono delle scadenze e i pezzi di tessuto sono contanti, quindi non c’è molto margine di errore per i detenuti che lavorano. Per loro è proprio un lavoro, non c’è solo un puro e semplice imparare il mestiere. A seconda della commessa che ci viene data, apprendono come fare una tasca, o altro. Ad esempio. adesso stiamo facendo dei berretti, e prima avevamo fatto delle calze per l’Epifania. Non è semplice unire la parte umana e quella produttiva.
La tua vena creativa, che è molto forte, riesce a esprimersi ugualmente?
Adesso la mia vena creativa proprio non c’è. Ma va bene così. Però, visto che mi conosco, posso immaginare che quando mi sarò abituata meglio a questo regime di lavoro riprenderò a disegnare e creare per conto mio, senza fare chissà quali cose. Intanto, quando riesco, sto iniziando a scrivere il seguito del libro e anche questo è un modo per esprimermi creativamente. Di sicuro sono certa di non volermi mettere troppo in mezzo ai piani che Dio ha per me, lo lascio fare.
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