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Andrea Monda: tra mille incognite ricominciamo la scuola dicendo «presente!»

ANDREA MONDA

Vatican Media | Divisione Produzione Fotografica

Il direttore del giornale, Andrea Monda.

Annalisa Teggi - pubblicato il 09/09/20

«Nessuno di noi conosce la propria altezza, finché qualcuno non ci chiama ad alzarci in piedi» con lo slancio di questi amati versi di Emily Dickinson il Direttore dell'Osservatore romano ha condiviso con noi qualche spunto su come ricominciare la scuola, dove è stato insegnante per 18 anni.

Dal dicembre del 2018 è diventato Direttore dell’Osservatore romano, dopo aver trascorso 18 anni nella scuola come insegnante. Oltre ad essere un profondo conoscitore di letteratura, Andrea Monda è anche amatissimo per la sua trasmissione

su TV2000 in cui lo spettacolo è proprio la quotidianità scolastica dell’incontro tra insegnante e studenti.

Finisce qui il meglio che riesco a fare di una presentazione ufficiale, perché prevale l’entusiasmo che ho per lui come amico. Chi ci ha fatto incontrare, un po’ di anni fa, è quel burlone di Chesterton a cui va il merito – da morto – di riuscire a creare legami vivi, e assai fraterni, nel presente. Nel 2013 allestimmo insieme ad Andrea (e a Edoardo Rialti e Ubaldo Casotto) una mostra su Chesterton, e ci divertimmo come bambini. Tra me e me ringraziai di aver incontrato persone come lui che finalmente – dopo una deludente esperienza in certi ambienti universitari – mi confermavano, tra una chiacchierata serissima e un buon pranzo, che la letteratura è una casa accogliente piena di incontri inaspettati e legami sinceri che non hanno bisogno di etichette troppo formali.

Ho pensato a lui, ora che le incombenze dell’inizio della scuola mi piovono addosso come genitore. Avevo bisogno di un amico che mi ricordasse qual è il cammino avventuroso che tutti facciamo insieme e che, di necessità, prevede momenti di fatica e prova, come questa emergenza sanitaria. Volevo togliere dalla mia ansia quotidiana i ritornelli su mascherine, banchi monoposto, ingressi scaglionati; anzi, volevo poter guardare tutte queste incognite dando loro il posto giusto: sono parte della realtà che viviamo, ma non sono il fondamento della nostra esperienza.

Abbiamo, dunque, chiacchierato in libertà per mettere a fuoco qualcosa di umano in mezzo alla pandemia, per dare ai nostri ragazzi un abbraccio quando entreranno di nuovo in classe.


TEEN, BOY, GIRL

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Caro Andrea, sono felice di farti questa intervista per Aleteia For Her. Da un più di un anno non sei più a scuola come insegnante e dirigi l’Osservatore romano. D’istinto volevo chiederti cosa ti manca della scuola, ma formulo diversamente la domanda: quale tesoro porti con te del tuo vissuto scolastico?

Hai fatto bene a capovolgere la domanda perché questa è la domanda giusta, che spesso mi pongo. Il “tesoro” che mi porto dai 18 anni di insegnamento è l’importanza della presenza, della relazione personale. Nel momento in cui mi sono distaccato dalla scuola ho avuto la conferma di quello che ho sempre pensato mentre la facevo: la cosa più preziosa è l’incontro tra persone che non si conoscono ed entrano in rapporto guardandosi in faccia. E la conoscenza reciproca è rendersi conto che ciascuno è un mondo infinito e diverso. Nei 20 mesi di lavoro svolti finora in Vaticano mi sono mosso partendo da questa centralità della presenza, ma inevitabilmente è proprio ciò che è sparito negli ultimi sette mesi a causa dell’emergenza Covid. Ho dovuto rimodulare ogni cosa in redazione, da marzo infatti ho mandato tutti in smartworking. Nonostante ciò, ho voluto ribadire che noi non facciamo solo un giornale ma costruiamo anche le condizioni per creare una comunità che lavora insieme. Una delle frasi che ripeto con più frequenza ai giornalisti dell’Osservatore Romano è “non esiste lavorare, esiste collaborare”. Creare le condizioni per creare rapporti, è un lavoro che inizia e di fatto non finisce. Ed è la scuola che mi ha insegnato questo: fare lezione per un’ora non era per me un’esperienza chiusa e finita in sé, ma apriva ad altre possibilità che prolungassero quell’incontro. Nei pomeriggi, nei week end, durante l’estate organizzavo tante occasioni di scambio coi ragazzi.

Mi ricordo benissimo la tombola del periodo natalizio …

Sì, la tombolata! E poi c’era l’esperienza del teatro, le escursioni di 4 o 5 giorni in campagna durante l’estate. Mi veniva naturale, non le progettavo a tavolino. Quando ne prendevo consapevolezza, intensificavo le proposte perché, per inquadrare la cosa in una riflessione più generale, direi che è la risposta alla più grande crisi che vivono le società occidentali, vale a dire quella che io chiamo la «crisi della manutenzione delle relazioni». Quanto è difficile questa manutenzione! E allora bisogna impegnarsi, rimboccarsi la maniche e fare questo lavoro certosino quotidiano per tenere vive le relazioni umane. Ed è proprio la domanda più urgente che ci fanno i giovani; il mio lavoro di insegnante è stata la risposta a questa esigenza di rapporti vivi che partiva da loro.

Il secondo aspetto che dalla mia esperienza scolastica è passato al lavoro dentro l’Osservatore romano è portarmi dietro la presenza dei giovani, ho abbassato la media dell’età di chi scrive nel giornale e anche di chi lo legge perché sono stanco che si parli dei giovani, io desidero che siano i giovani a parlare.

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Shutterstock I DONGSEON KIM

Mi permetto di entrare nel tuo privato. Quindi i tuoi studenti continuano a cercarti anche se non sei più a scuola?

Assolutamente sì, e alcuni tra i miei ex alunni più grandi hanno cominciato a scrivere e ho pubblicato dei loro pezzi: alcuni sono diventati dei veri specialisti in ambiti vastissimi, dalla musica folk all’astrofisica. Da una parte io non li ho mollati alla fine del percorso scolastico e, anzi, li ho ingaggiati, dall’altra loro mi cercano perché proprio quel faticoso lavoro di manutenzione, di cui parlavo prima, qualche frutto lo dà e lo dà in una forma sorprendente che non ti aspetti. Magari a fiorire è proprio il ragazzo che non ti aveva dato dei segnali positivi. Per farti un altro esempio, molti studenti sono confluiti nell’associazione Bombacarta di cui sono stato presidente fino a maggio scorso e oggi ne è diventato presidente un mio ex alunno. La coscienza bella di un insegnante è anche questa: da adulti si può fare serenamente un passo indietro, riconoscendo che l’energia dei giovani ha valore. La nostra società ha un grande problema ed è quello di non saper più esercitare la paternità in generale, ma in particolare proprio nel non sapersi fare da parte per dare spazio ai figli.

A questi giovani a cui è bello lasciare il passo proviamo a offrire uno spunto quasi provocatorio. Siamo in un periodo di emergenza, parola che per noi ha il significato di “situazione grave, critica, brutta”. Possiamo osare un salto oltre l’ostacolo, tornando all’etimologia di questa parola, cioè: qualcosa che emerge. Cosa può emergere di umano dentro le emergenze?

Qui occorre che io ti citi il mio datore di lavoro. Negli ultimi mesi il Santo Padre non fa altro che ricordarci che le crisi sono situazioni che ci cambiamo e ci rendono migliori o peggiori a seconda del nostro modo di viverle. E Papa Francesco ci ha provocato, soprattutto, dicendo che la cosa peggiore di una crisi è sprecarla. L’emergenza può diventare un’occasione feconda se genera qualcosa di nuovo. Abbiamo sentito spesso la frase tornare alla normalità, ed è un’illusione. Innanzitutto «tornare» mi sembra un verbo abbastanza difficile da applicare alla storia umana e poi «normalità» è un’altra parola dall’ambiguità assoluta. Il virus ha fatto emergere chiaramente che, già da prima, la nostra società non era normale, non era sana. Quindi la prima cosa che può emergere nell’emergenza è un atto di consapevolezza che nasce da una scossa. Siamo scossi, siamo caduti dalla sedia in cui eravamo seduti.


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E in fondo le grandi storie della letteratura cominciano da uno scossone, da un personaggio che si mette nei guai …

Sì, è proprio così. Magari questi personaggi sono riluttanti, non lo vogliono o ci sono costretti, ma lasciano il loro posto. Prendere atto di questo cambiamento e vedere fino in fondo a cosa porta è il succo delle grandi storie. Facendo questo accenno io e te stiamo già pensando a qualche personaggio in particolare, magari un po’ basso di statura. In un mondo statico e sedentario come quello della Contea, ci sono due hobbit, prima Bilbo e poi Frodo, che trasgrediscono, cioè fanno un passo al di là del noto e si trovano a mettersi alla prova. Attraversano la loro crisi fino in fondo e alla fine saranno diversi loro, e sarà diverso il mondo. Questa è la sfida di fronte a noi.

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DR
Le hobbit

Visto che hai citato il tuo amatissimo Tolkien non mi lascio sfuggire l’occasione. Di fronte alle difficoltà noi siamo sempre preoccupati dell’esito, di come andrà a finire. Invece c’è quel famoso richiamo di Gandalf in cui l’attenzione si concentra sul qui e ora della fatica nel momento della prova: «Possiamo soltanto decidere cosa fare con il tempo che ci viene concesso».

Inevitabilmente scatta nell’uomo il desiderio di avere il controllo assoluto. Invece l’avventura è una storia che comincia e non sai dove porta. La letteratura ci ricorda che l’avventura è il contrario di un viaggio organizzato, che il “viaggio organizzato” è un ossimoro. Non voglio svilire il settore del turismo a cui sappiamo che il Covid ha inflitto un colpo ferale, ma si può metaforicamente dire che l’uomo occidentale ha vissuto fin troppo nel mito del viaggio organizzato: è come togliere il succo della vita, perché la cosa bella del viaggio è che è un’esperienza. Possiamo fare una fotografia sintetica del nostro tempo dicendo che l’uomo tecnologico del terzo millennio ha ridotto la vita da esperienza a esperimento. Questo slittamento ha portato a un delirio di onnipotenza che però non cancella nell’uomo il desiderio profondissimo di esperienza, e non di esperimenti. Pensiamo alla relazione umana più importante, quella dell’amore: non sta in piedi a forza di esperimenti. Ricordo che c’erano studenti che venivano candidamente a confidarmi ipotesi del tipo: «Se lei non mi vuole, ci provo con sua cugina». Ma la vita non è reversibile, non è una serie di porte da cui entrare e uscire a piacimento. Se ti butti in acqua ti bagni, non puoi pensare di rimanere impermeabile.

Forse un aspetto positivo della tragica vicenda Covid è che ha spazzato via l’illusione di poter ridurre tutto a esperimento. Stiamo davvero vivendo un’esperienza, tant’è che viviamo nell’incertezza assoluta e siamo attraversati dalla paura. Ma finalmente, proprio dentro questo evento imprevisto, ci ritroviamo a pronunciare due paroline di grande potenza liberatoria: «Non so». Da molto tempo dal vocabolario occidentale era sparito questo «non so», ed è benedettamente tornato. Il «non so» può essere il primo passo nell’avventura di una rinascita dell’umano. La speranza si innesta anche a partire da questa riflessione sul non sapere.

Grazie tantissimo di quest’intuizione sul «non so», che è quella botta di umiltà che fa da trampolino a uno slancio più autentico.

Ora che le mie giornate trascorrono dentro il mondo della comunicazione, mi rendo conto di quanto siamo circondati da gente che parla in continuazione. E prende parola con la posa di chi ti dice: «Ora ti spiego le cose». Forse oggi un bravo giornalista dovrebbe cominciare tutti i suoi articoli dicendo: «Non so …».

Ottimo, allora facciamolo anche noi ora. La scuola inizia tra poco e sono proprio i «non so» a prevalere. Tornerà la didattica a distanza? Come faremo con gli ingressi scaglionati? Arriveranno i banchi monoposto? A fronte di questi e altri problemi reali, può essere incoraggiante ripartire – come coscienza personale – dal primo gesto che si fa a scuola ogni mattina, l’appello. L’insegnate chiama e l’alunno risponde: presente! Riusciremo a dire «presente!» anche con la didattica a distanza, se ci toccherà, e in mezzo a tutte le incognite che già ci sono?

Parto un po’ da lontano per arrivare al punto. L’istruzione può essere demandata alla didattica a distanza, ma l’educazione no. Ridurre quello che avviene a scuola a istruzione è terribile. Peraltro già da tempo i nostri ragazzi sono bravissimi a istruirsi da soli con il computer e le altre tecnologie. Per l’educazione è necessaria la presenza. L’anno scolastico comincerà con una possibilità molto limitata di lezioni in presenza e forse potranno essere anche sospese, per motivi di cui capiamo la ragionevolezza. Proprio tenendo conto di ciò, bisogna seguire il consiglio del Papa, quando dice che nella crisi ci vuole creatività.

È vero, la giornata scolastica comincia con l’appello a cui lo studente risponde: «Presente». Parola stupenda, pensiamoci: perché in italiano e in inglese significa “dono”. La presenza è il riconoscimento di un dono ed è l’unico approccio possibile per vivere la scuola con la dimensione della gioia. È una facile associazione dire che scuola equivale a noia; nella  mia esperienza ho sempre tentato di proporre un’altra equazione: scuola uguale gioia. In realtà se noi adulti ripensiamo alla scuola, e ci scrolliamo di dosso la modalità automatica del malumore, ci ricordiamo soprattutto delle relazioni con gli amici e dei momenti di gioia assoluta e divertimento condivisi con loro. Perché ci sia la gioia ci deve essere un dono (e il suo riconoscimento) e nel momento in cui un adulto ti chiama e tu ti alzi e rispondi con la tua presenza, anche se non ne sei consapevole, stai riconoscendo un dono. E mi viene in mente un verso di Emily Dickinson che cito spesso:

Nessuno di noi conosce la propria altezza, finché qualcuno non ci chiama ad alzarci in piedi.
SCHOOL, GIRL, STUDENT
Jacob Lund | Shutterstock

È un richiamo all’umiltà, ma è anche la definizione di cos’è la scuola: qualcuno che ci chiama ad alzarci in piedi. In quel nome che viene chiamato e nella risposta che viene data c’è già una storia, è l’avvio di una storia. E quest’anno Papa Francesco ha celebrato la Giornata mondiale della comunicazioni sociali con un messaggio straordinario sul fatto che oggi più che mai per non smarrirci abbiamo bisogno di raccontare storie. Smarrirsi è un verbo che ci ricorda immediatamente una storia tra le tante possibili. La Divina Commedia è il poema di un uomo smarrito che si ritrova grazie al racconto di storie: nella selva è Virgilio che va incontro a Dante, è la poesia stessa che arriva ad aiutarlo e insieme cominciano a camminare, a raccontare e a incontrare persone che a loro volta si raccontano. Nessuno si conosce finché non racconta la sua storia. E il racconto aiuta anche l’identità della comunità, del popolo in cui viviamo.  Dunque proviamo a ricomporre tutti i pezzi: la scuola ora comincia nell’incertezza più assoluta, che cosa ci può aiutare? Non so indicare una via precisa, perché il modo di come organizzare questo momento è l’incognita grande da delegare alla creatività di ciascuno, ma sicuramente se ripartiamo dall’antichissima arte umana del racconto facciamo innanzitutto memoria del fatto che siamo dentro una storia che ci precede e inneschiamo la crescita personale. Ci sarebbe molto da dire sulla frantumazione della nostra civiltà, però intanto partiamo da qui: l’educazione ha bisogno di presenza. Non saprei trovare la formula per garantire questa presenza nelle circostanze attuali, bisogna essere creativi. Da ogni crepa infatti può passare la luce. Riconosciamo che siamo anche noi nella selva oscura, ma non solo a causa del Covid. Diciamocelo francamente: anche prima di questa pandemia la scuola non era il massimo e aveva problemi grossi. Può essere questa l’occasione in cui mettere mano alle fondamenta e cominciare a ricostruire. Se questa crisi potrà riportarci all’essenza di ciò che è la scuola, un incontro e racconto tra generazioni, allora non l’avremo sprecata.

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