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A Bergamo tra dolore e speranza. La storia di Luca che lotta nel cuore del Covid

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Lucandrea Massaro - pubblicato il 04/09/20

Un libro testimonianza di questi mesi di grande sofferenza durante il lockdown

I giorni più duri della pandemia di coronavirus sembrano alle spalle, e naturalmente tutta Italia, tutto il mondo, prega e si adopera perché i prossimi mesi non siano una replica, magari aggravata, di quel periodo di lockdown, che – specie in alcune parti d’Italia – ha rappresentato uno dei momenti più duri e tristi dal dopoguerra ad oggi. Solo in Italia ci sono sono stati 35 mila morti, la maggior parte dei quali nella ricca Lombardia. Il cuore del disastro è stato Bergamo, e in quel luogo – dove il virus ha fatto più male – che la speranza non è mai venuta meno, e il dolore è stato lenito da un sorriso, e dalla cura che medici e infermieri hanno elargito con sapienza e carità.

Per questo vale la pena di leggere la storia dell’Ospedale Giovanni XXIII di Bergamo, attraverso lo sguardo del primario Luca Lorini, direttore del dipartimento di emergenza del nosocomio intitolato al “Papa Buono”. Questo librino, consultabile gratuitamentesul sito della Fondazione Santina Onlus, edito dalle Edizioni Messaggero di Padova e curato da Giulia Cerqueti e Luigi Ginami dal titolo “Luca. Bergamo nell’occhio del ciclone coronavirus“. Il libro è un cosiddetto “instant book”, cioè un libro scritto a caldo rispetto ad un evento, spesso frutto di interviste e inchieste sul campo. Questo non vuol dire che non sia un libro ragionato, ma che è un libro frutto di una volontà di narrare l’incredibile sforzo fatto dagli “eroi del Covid” prima che possa calare un velo di apatia che spesso tradisce chi vive il nostro tempo fatto di frenesia.

Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio ha scritto nella sua presentazione del volumetto le parole chiave per capirne l’importanza:

«L’ospedale è luogo di cura, ma anche di dolore. Lo sappiamo tutti. Lo sanno la Fondazione e l’Associazione intitolata a Santina Zucchinelli, che hanno promosso questo libro. Conosciamo i dolori personali e privati. Ma un dolore, così forte e opprimente, lo avevano visto solo in aree lontane del mondo, nelle grandi periferie umane del Sud, dove si vive con niente e si muore per niente, dove manca la cura. Il nostro mondo opulento (non tutto) ha chiuso persistentemente gli occhi sui grandi dolori del mondo. Tanto dolore vissuto nelle nostre terre non ci potrà non rendere più sensibili alla sofferenza lontana e vicina. Perché in questo mondo globale – si vede bene in questi giorni – non ci sono frontiere. La realtà di questa pandemia ha portato a vedere il grande dolore tra noi. Bergamo, con il Papa Giovanni, è stato una frontiera dolente della battaglia tra la vita e la morte.”» (pag 8-9)

Il dolore non è lontano, crediamo che lo sia perché ci spaventa, e non guardarlo in faccia ci fa sentire al sicuro. Il dolore è umiliante e in quest’epoca in cui la superbia si è trasformata in virtù, nessuno vuole guardare in faccia l’umiliazione. Ma – come si dice fin dalle prime pagine del volumetto – il dolore ce lo avevamo in casa, e (mi sia concesso aggiungere) proprio per questo non dobbiamo abbassare la guardia, né la mascherina:

«L’emergenza non è sulle Ande del Perù, tra gli islamisti di Mosul in Iraq o nel delta del Mekong in Vietnam: no! L’emergenza, il centro del mondo, purtroppo oggi, è l’Ospedale di Bergamo e questo ci lascia senza fiato! Un ospedale così efficiente, nuovo, all’avanguardia, assediato dal terribile morbo del Corona Virus. Peggio di una guerra! Medici che lavorano con una passione incredibile, struttura provata all’estremo delle forze. Sembra un perverso gioco del Male che infuria senza pietà e che, in modo cieco, ammazza gente!» (pag. 16-17)

Un dolore che sono i medici e il personale sanitario a caricarsi sulle spalle, come racconta Luca Larini intervistato da “Gigi” al quale confida che lui non piange mai, si carica tutto dentro ma spesso fuori dalle porte della terapia intensiva, quell’ultimo baluardo al quale i pazienti possono ricorrere in situazioni di estrema gravità,

«Gigi, in terapia intensiva, quando entro, mi capita di trovare seduto in un angolo un mio medico o un mio infermiere con le lacrime agli occhi per il paziente appena morto. Sono uomini e donne strepitosi. Li vedo seduti con le mani coperte dai guanti sul volto coperto dalla mascherina e ne noto i singhiozzi. Faccio finta di non vederli, ma loro sanno benissimo che sono lì vicino a loro, ai miei medici e infermieri.» (pag. 33)

Eppure devono farsi forza, armarsi del loro sorriso più vero e passare al prossimo paziente, mentre sanno che magari anche la persona davanti a loro può non farcela, magari a causa dell’età, ma non perderanno la voglia di confortare, di scambiare alcune parole, di rassicurare, di esortare. Sono queste le storie, emozionanti, struggenti e piene di bellezza che emergono da questo libro, in cui ci si può ritrovare a piangere con loro, e a gioire dei loro successi e davvero di pensare a loro come a degli angeli o – come si è detto nei mesi scorsi – come a degli eroi. Nella fase più dura del lockdown, le persone ricoverate erano sole, impossibilitate ad essere confortate dai familiari ed è così che al malato, solo e spaventato, che capisce che la sua condizione è grave cosa si può dare?

«Cosa puoi regalare ad una vecchietta lucida che sta crepando? Una medicina? Certo… ma sono convinto che il regalo più bello è un sorriso! […] saper sorridere, Gigi, dentro la terapia del Coronavirus è un’impresa ciclopica. Non è facile! Ma, se il pianto dice paura, il sorriso dice speranza» (pag. 34).

Leggendo della fatica di quei giorni, dei turni estenuanti, delle precauzioni, del tempo sottratto alla famiglia e agli affetti, si capisce che Bergamo è il simbolo della lotta al Coronavirus, un virus che Luca definisce “della solitudine”, perché strappa tutti dalla propria vita, dalle proprie relazioni, e che – nel momento della massima fragilità – costringe in un letto di ospedale lontano da tutti. I medici e gli infermieri in quel momento sanno che non possono permettersi di ammalarsi, che ogni comportamento azzardato è un pericolo per i pazienti e per le famiglie a casa. Una emergenza durata 107 giorni, un lungo, lunghissimo turno durato più di tre mesi, questa è stata la fase acuta. Leggendo queste pagine non si può fare a meno di pensare ai nostri comportamenti giornalieri, io che mi lamento perché devo fare la spesa con la mascherina, ma che cos’è rispetto a 3-4 ore con uno scafandro addosso? Con le piaghe sul volto per via di una mascherina che io sono costretto a sopportare per pochi minuti, mentre loro per ore e poi per giorni, settimane e mesi? Ecco perché la sofferenza è importante per il cristiano, non per masochismo come dice chi vuole deridere, ma perché nelle nostre sofferenze possiamo ritrovare quelle del Cristo. E’ in un meccanismo di immedesimazione e di ricerca di senso che possiamo guardare al crocefisso senza orrore, Gesù non è lì per spaventare il prossimo, ma per dire “io ti ho amato così, amatevi anche voi così”. E quei segni in faccia dei medici e degli infermieri non sono così lontani dalle stimmate: anche loro, credenti o meno, hanno detto “si, ti amerò così”.

Ecco allora che questo libro, parte di una serie su uomini e donne che si sono donati in vario modo, è un piccolo cammino spirituale se lo si legge con gli occhi giusti, ed è un monito ad amare il prossimo anche con piccoli gesti, magari con una mascherina sul volto per evitare che altri debbano tornare a vivere quella dura esperienza che ci siamo lasciati alle spalle. Buona lettura.

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