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Il sacerdote che lotta contro la tubercolosi in Corea del Nord

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Christophe Bérard

Le père Christophe Bérard est responsable du laboratoire mobile.

Domitille Farret d'Astiès - pubblicato il 28/08/20

Padre Christophe Bérard assiste come missionario i malati di turbercolosi nel Paese più isolato del mondo

Padre Christophe Bérard trascorre la maggior parte dell’anno in Corea del Sud. È cappellano dei francofoni di Seul ed è coinvolto nella pastorale dei migranti, ma dal 2012 ogni sei mesi il sacerdote delle Missioni Estere di Parigi parte per trascorrere un mese nella Repubblica Popolare e Democratica di Corea (nome ufficiale della Corea del Nord).

Lì lavora con la fondazione Eugene Bell, realizzando prevenzione e diagnosi e offrendo trattamenti per lottare contro la tubercolosi nel Paese comunista. Per lui è “una sfida sacra”.

“Aver vissuto in Corea del Sud mi ha permesso di comprendere meglio la Corea del Nord. Le culture sono vicine. La Corea del Nord è un Paese in cui si viene invitati, ma bisogna abituarsi a un certo numero di regole e procedure, ed essere pazienti”.

Missionario nel suo Paese

Originario di Saint-Étienne (Francia), padre Christophe è stato ordinato sacerdote nel 1993. Per dieci anni è stato sacerdote diocesano, soprattutto nei quartieri popolari di Saint-Étienne, dove ha vissuto in un appartamento in affitto sociale circondato da un’ampia popolazione magrebina. “Per me la vita missionaria è iniziata in Francia. Ho dovuto affrontare la realtà di essere straniero, e questo mi ha fatto immergere in un’esperienza sia sociale che ecclesiale che non conoscevo. Ho vissuto al centro delle questioni del luogo e ho provato il desiderio di conoscere quegli argomenti dall’interno diventando io stesso straniero”. In quel momento ha scoperto le Missioni Estere di Parigi. Qualche anno dopo, nel 2004, è arrivato in Corea del Sud.

Pyongyang, capitale della Corea del Nord

Lo attendeva una sfida di grandi proporzioni. Nel 2019 la tubercolosi ha ucciso 1,3 milioni di persone, 16.000 delle quali in Corea del Nord. Va detto che questa malattia si manifesta in due forme: quella di base e quella resistente. Il trattamento per curare quest’ultima costa 5.000 dollari, e richiede che il paziente resti confinato in un centro per 18 mesi.

Ogni anno, la fondazione Eugene Belle cura tra le 2.000 e le 3.000 persone. La fondazione lavora a stretto contatto con il Ministero della Salute nordcoreano, che le indica la lista dei centri da visitare.


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Alla guida del laboratorio

Padre Christophe è responsabile del laboratorio mobile in cui analizza la saliva dei malati, fornisce una diagnosi e garantisce in un secondo tempo che i pazienti siano seguiti. “Bisogna aiutare a livello materiale, ma anche educare molto”, sottolinea.

“Il mio lavoro consiste nel permettere che i più poveri di questo Paese possano ricevere aiuti”.

Il missionario opera con un’équipe a cui partecipano, tra gli altri, sanitari nordcoreani, un professore bulgaro e un sacerdote messicano.

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Christophe Bérard

Questa missione che effettua due volte all’anno è un’autentica odissea. Il fatto che i sanitari possano entrare nel territorio nordcoreano è già in sé un successo, perché sono poche le organizzazioni internazionali che ottengono il permesso d’ingresso in Corea del Nord.

I membri dell’équipe medica non nordcoreani partono da Seul per riunirsi a Pechino, dove recuperano i visti. Del resto, non c’è un’ambasciata nordcoreana in Corea del Sud. Prendono poi un aereo per Pyongyang, dove si trova la loro sede. Lì prendono direzioni diverse guidate da autisti nordcoreani per visitare i 13 centri dedicati allo studio della tubercolosi. Viaggiano in una carovana composta da un furgone a dieci posti e vari camion fino a Kaesong, alla frontiera con la Cina.

“Vivere la fede in Corea del Nord passa per il servizio al fratello malato”

Il viaggio è estenuante e richiede una notevole resistenza. Per un mese, l’équipe percorre ogni giorno il Paese su strade spesso piene di fango o rocce. A volte bisogna rassegnarsi a scendere dal veicolo per spingerlo, a costo di passare la giornata coi piedi immersi nella pioggia o nella neve.

“Usciamo alle 4 del mattino e possiamo lavorare anche 12 ore senza fermarci. Torniamo a mezzanotte, con molti imprevisti – malati che non vanno all’appuntamento, camion che se ne vanno”, racconta il missionario, che ricorda anche tagli all’elettricità, problemi di benzina, dissenteria…

“Sono giornate molto dure”. Ogni tre giorni serve una pausa, per poter mantenere il ritmo a lungo termine.

In quest’impresa si vivono anche esperienze molto belle. “Ci sono persone che con pochi mezzi fanno cose straordinarie. Creiamo vincoli di amicizia”, dice menzionando un’infermiera del laboratorio che una volta gli ha offerto una cassettina di castagne arrostite che lui aveva gradito molto in occasione di una visita precedente.

“Questo dimostra che le persone pensano a noi. Sono momenti molto belli”.

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Christophe Bérard
Vue depuis la route, cette arche symbolise l'unification entre la Corée du Sud et du Nord, à Pyongyang (Corée du Nord).



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Il sacerdote descrive scene di vita in Corea del Nord a cui assiste durante i suoi spostamenti: i bambini che vanno a scuola nella loro divisa blu e bianca con un fazzoletto rosso al collo, i soldati, i contadini che vanno nei campi, gli uomini che costruiscono strade, altri che si lavano nei fiumi…

Intorno a lui, paesaggi di bassa montagna con valli in cui si coltiva il riso e grandi zone rurali che contrastano con le città. “Non c’è meccanizzazione ovunque, ci immergiamo nell’atmosfera della Repubblica Democratica”, indica il sacerdote.

Il contrasto con la Corea del Sud

“La Corea del Sud è in pieno cambiamento, è un Paese che non smette di evolversi. Si inscrive nel pensiero confuciano. Per comprendere la Corea bisogna capire questo”. Questa scuola di pensiero è caratterizzata da una ricerca di armonia nei rapporti umani, considerata una via di pienezza.

Anche se sente di avvicinarsi ogni giorno di più ai Coreani, il sacerdote riconosce di non sentirsi uno di loro. “Non bisogna cercare di diventare come i Coreani, ma di avvicinarsi a loro il più possibile. Una delle gioie è parlare la lingua del Paese. È un piacere sacro poter conversare nella lingua locale, permette di farsi degli amici”.

Il presbitero confessa di non capire tutto ciò che accade nel Paese. “È difficile sentire che ci sono cose che non capirò mai, ma va accettato. Non abbiamo i parametri per comprendere tutto. Qui, ad esempio, per avere un amico bisogna avere la stessa età. C’è una cultura gerarchica, e quindi bisogna imparare a tacere, a esprimere le opinioni in un altro modo, a dare priorità alla vita di gruppo. In Francia amiamo scherzare, qui non si deve mai far sì che qualcuno perda la compostezza, neanche per scherzo. Mi consideravo una persona molto aperta. La cultura coreana mi ha messo davanti ai miei limiti”.

Il missionario mostra la sua ammirazione nei confronti della Chiesa in Corea del Sud, dinamica, con sacerdoti giovani e che ha dato molti martiri. “C’è un legame di sangue tra Francia e Corea, un legame particolare”, afferma.

Padre Christophe vorrebbe anche organizzare un pellegrinaggio seguendo i passi dei martiri per raccogliere denaro per i suoi pazienti malati di tubercolosi. La sua missione assume una forma indiretta, perché “la proclamazione diretta del Vangelo non è possibile in Corea del Nord”.

“Vivere la fede in Corea del Nord passa per il servizio al fratello malato”, conclude il sacerdote. “Questo non impedisce di riunirsi in una camera d’albergo per celebrare la Messa. In quel momento, siamo consapevoli del fatto che è l’unica Messa che si celebra nel Paese, e non è una cosa da poco. Anche se è una Messa celebrata sul letto di un hotel, la simbologia è molto forte”.

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