L'incendio al centro della serie Little Fires Everywhere fa piazza pulita di una vita fondata sull'apparenza. Due madri, due vite opposte, nessuna anima candida e lo struggente bisogno che le nostre colpe non ci riducano in cenere.
Si può avere un grande incendio nella propria anima, eppure nessuno è mai venuto a scaldarsi. I passanti vedono solo un filo di fumo dal camino e continuano sulla loro strada. – Vincent Van Gogh
«Abbiamo sbagliato, ma non siamo sbagliati» curioso e interessante che la verità di una storia sia pronunciata dal personaggio meno probabile, nel caso specifico un adolescente belloccio e impegnato a collezionare più ragazze possibili da portarsi a letto. Ma chi di noi potrebbe mai sentirsi adeguato a esprimere della verità? Accadono invece momenti di fulminea consapevolezza in cui l’anima più sbandata urla un bisogno sincero, anche se non sa a chi rivolgere quel grido. Appicchiamo fuochi come messaggi di salvataggio e finiamo per essere vittime di quell’incendio.
Ho finito di vedere la prima stagione della serie Little Fires Everywhere (Piccoli fuochi ovunque) e ne applaudo l’onestà narrativa, l’intensità di proporre punti di vista opposti e irrisolti senza ridurli, la brutale amarezza di dipingere un deserto umano che reclama l’acqua della misericordia, senza saperlo.
Tutto è incentrato sulla maternità, dalla sua apparenza più rassicurante fino ai drammi più sconcertanti. A visione ultimata restano addosso tante domande. Quanto siamo schiave della nevrosi di essere madri perfette? Resta madre chi abbandona un figlio? I figli sono un possesso? Siamo davvero sicure che fare tutto da sole sia una forza?
Tutto è lecito, niente soddisfa
Una bellissima casa va a fuoco, in un quartiere impeccabile in cui se l’erba del giardino supera il limite di 15 cm arriva subito una multa. Così comincia Little Fires Everywhere, con un incendio che distrugge tutta l’apparente perfezione della famiglia Richardson, due genitori ricchi e belli con 4 figli. Scoprire l’innesco di quel fuoco è il percorso che si dipana di puntata in puntata.
Siamo in America, ma siamo anche a casa nosta: una comunità apparentemente libera, ma schiava di mille demoni interiori. Sarebbe più giusto dire che, fieri di esserci liberati dal vincolo con l’Assoluto, ci siamo chiusi da soli nelle prigioni dei nostri drammi. Il magma più incandescente è quello delle relazioni, stabili o occasionali patiscono tutte uno sguardo egocentrico che il ribelle chiama «faccio quello che voglio» e il superuomo osanna come «posso avere il controllo di tutto».
La città di Shaker, dove si svolge la vicenda, doveva essere un esperimento sociale all’avanguardia nella convivenza civile ma è un gran impasto di solitudine, disperazione, borghesia bigotta, emarginazione. La spazzattura non deve essere messa di fronte alle case, ma salta fuori lo stesso che la famiglia è un casino e non si regge sulle sole regole del bon ton. Con altrettanta onestà salta fuori che anche la donna più ribelle agli schemi è vittima della sua volontà orgogliosa. Tra quali misere certezze di orienta la vita, dunque? La famiglia tradizionale è applaudita dai benpensanti come un vecchio rudere; la sessualità è guidata da istinti momentanei e volubili eppure non è il regno spensierato che si vorrebbe. Di sicuro nessuno è felice in questa città-mondo.