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Lo studio del Diritto Ecclesiastico può aiutarci nella nostra vita di cristiani?

TRAFALGAR SQUARE,LONDON: A young woman shows her support for the people of Paris. After the Paris attacks hundreds gathered in Trafalgar Square to stand in solidarity with Paris and the victims of the terrorist attacks. MARCIN MAZUR/CATHOLICNEWS.ORG.UK

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Giovanni Marcotullio - pubblicato il 31/07/20
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Che cos’è un Concordato? Chi lo stipula e perché? Le cose sono più o meno facili quando lo Stato e i culti non producono una sorta di “legislazione comune”? Come e perché è nato l’8×1000? Di queste e di moltissime altre cose si occupa una disciplina accademica che può risultare molto utile anche a chi non studia legge, soprattutto al semplice fedele che vuole capire meglio il mondo in cui vive ed esprime la propria fede.

Qualche giorno fa un amico che studia Legge mi diceva di essersi messo l’esame di Diritto Ecclesiastico a settembre, aggiungendo di essere alquanto impaziente dal piacere che aveva nel preparare quella materia: «All’esame di Diritto Canonico – aggiunse giustamente orgoglioso –, con la medesima commissione, presi la lode».

E per un lampo un brivido di tenue invidia è balenato anche in me, che pur avendo studiato non pochissimo Diritto Canonico non ho mai avuto occasione di seguire un corso di Diritto Ecclesiastico (cerco allora di rimediare come posso, soprattutto grazie all’aiuto di amici buoni e pazienti). Lana caprina? Non direi, anche se c’è chi confonde le due discipline perfino in àmbito accademico: mentre infatti il Diritto Canonico produce, ordina e studia la legge che la Chiesa si dà, al proprio interno, per normare la propria vita, il Diritto Ecclesiastico è l’insieme delle norme civili e penali che lo Stato si dà, al proprio interno, per tutelare il fatto religioso (o almeno qualche sua dimensione pubblica).

Tanto basta a spiegare perché il prof. Stefano Testa, a cui ho raccontato dell’amico, abbia trovato perfettamente naturale la passione del giovane studente per le due materie, e in particolare per l’Ecclesiastico: «Il diritto ecclesiastico ha dentro tutto! La storia, gli intrighi politici, la Chiesa cattolica, le altre confessioni cristiane, le altre istituzioni religiose…». Da un certo punto di vista sembra di chiedere all’oste se il vino è buono, ma il prof. Testa mi faceva osservare un fatto molto poco soggetto a gusti individuali:

Il diritto ecclesiastico è una delle materie opzionali per l’esame d’avvocato, ed è una fra le più scelte ad ogni sessione d’esame, perché il fattore sociale religioso è elemento sempre attuale e sempre presente nella vita quotidiana (come si è visto anche di recente con le funzioni religiose durante il Covid, e poi in ambito lavorativo, matrimoniale, successorio, patrimoniale, i simboli religiosi, l’alimentazione, e chi più ne ha più ne metta).

E all’improvviso si palesa una realtà: quelli che conducono l’assalto alla presenza delle religioni nella sfera pubblica si fanno campioni di una titanomachia donchisciottesca, da quanto è universalmente pervasivo il fenomeno religioso (si ricordi che l’ultimo grande lavoro proprio del prof. Testa impiega poco meno di mille pagine solo per “comparare profili giuridici” a proposito della presenza dei “simboli religiosi nello spazio pubblico” – cioè appena uno dei millemila temi del Diritto Ecclesiastico!).

Sapere qualcosa su questa branca del Diritto significa dunque dotarsi di numerosi e potenti strumenti di interpretazione e di comprensione del nostro mondo, e quando dico “nostro” intendo anzitutto e soprattutto quello italiano, dominato dal rapporto concordatario con la Chiesa cattolica e (in subordine) con altri enti ecclesiastici o religiosi; ma significa altresì poter capire quanto diversa e più legata allo Stato sia l’esperienza delle chiese cristiane nel mondo germanofono, o anche entrare meno sguarniti nel complessissimo dibattito sui limiti tra diritto di satira e reato di incitamento all’odio razziale e religioso. Chi si dimentica dell’attentato alla redazione di Charlie Hebdo, che il belmondo cercò di trattare con la stessa sorpresa trasognata e dolorante prodotta dall’attentato al Bataclan?

Ciascuno dei fatti riportati [precedeva un succinto memorandum 2004-2015, N.d.R.] mostra specificità difficilmente riconducibili a un unico quadro giuridico. Certamente sono tutti accomunati dalla presenza di un fastidioso e riprovevole fanatismo religioso, che non esclude condannabili eccessi violenti. Eppure, in qualche caso, si potrebbero ravvisare gli estremi della provocazione, non sempre giustificati dalla vocazione artistica: penso, ad esempio, alle manifestazioni oltraggiose consistenti nel portare a passeggio maiali sui luoghi in cui si prevede la costruzione di moschee, o anche la stessa pubblicazione di vignette – benché a sfondo satirico – certamente offensive del sentimento religioso. L’ambivalenza di queste condotte è confermata dalla scelta olandese di arrestare un vignettista satirico – noto con lo pseudonimo Gregorius Nekschot – con l’accusa di incitamento all’odio religioso ed etnico, avendo pubblicato disegni offensivi verso islamici e neri. Non mancano altre polemiche verso artisti che indossano costumi o esprimono versi offensivi contro gli ebrei e, in non pochi casi, contro la religione in generale.

Pierluigi Consorti, Diritto e religione. Basi e prospettive, 283

Ho tratto queste righe da un manuale che un illustre giurista romano naturalizzato pisano ha scritto dieci anni fa e recentemente riproposto (in una versione rivista e aggiornata): ne debbo la segnalazione agli amici di cui già sopra, che volentieri mi suggeriscono mezzi per colmare le mie lacune specifiche, e mi piace condividerla perché il saggio è al contempo molto denso e specialistico (c’è veramente tutto quel che deve esserci, come mi avevano garantito) eppure leggibile e anzi godibile al lettore non-specialista.

Il Diritto Ecclesiastico si rivela utile anche per comprendere l’evoluzione (e la secolarizzazione) delle intolleranze, che vengono oggi intestate all’opinione pubblica e comportano l’eliminazione mediatica, se non fisica, di quanti cadono sotto la fatwa 2.0. O non abbiamo fresca allo spirito l’immagine di Salman Rushdie che, insieme con Joanne Rowling, è stato progressivamente emarginato e pubblicamente esecrato per la presa di posizione (crescente negli ultimi anni) contro i dogmi genderisti dell’auto-determinazione? Eppure sembra ieri – era solo il 1989 – quando Khomeini emanò la sua fatwa contro lo scrittore indiano,

accusato di aver offeso in un suo libro l’islam, avendo egli accondisceso a una controversa tradizione islamica secondo la quale il Profeta Maometto avrebbe inserito nel Corano alcune sura (capitoli del Corano) provenienti da Satana e non da Dio.

Ivi, 282

Chi disprezza e/o ignora la storia è condannato a reiterarla, e col peggiorativo per cui ogni riedizione della Tragedia ricade in Farsa. Le recrudescenze di certo banale e dogmatico giacobinismo rischiano dunque di rievocare le ore più infelici dell’estremismo religioso senza neppure la folle lucidità che in quelle sinistramente riluceva. Scorrendo le pagine di Consorti si capisce pian piano che anche la stessa narrazione “credenti-laicisti” non è sufficiente in sé a spiegare certe lente evoluzioni del Diritto, che si muovono invece nel medio o persino nel lungo periodo: è questo il caso, ad esempio, di quella che per certi versi è la “pre-istoria del ddl Zan”, ossia la dottrina giuridica sul cambio di nome anagrafico a seguito della “modifica del sesso”:

Un esempio problematico – scrive consorti – […] è offerto dall’interpretazione a lungo prevalente della legge 14 aprile 1982, n. 164, che consente di ottenere una rettifica degli atti di stato civile nel caso di modifica del sesso, posto che tale cambiamento incide sulla determinazione della propria identità e sulla conseguente rappresentazione esterna di sé. Orbene, tale diritto scattava solo quando fosse intervenuto un effettivo cambiamento dei connotati sessuali, e non anche quando la persona interessata volesse rappresentarsi secondo un orientamento sessuale diverso da quello fisicamente evidente […]|[…] Tuttavia, nel 2017 la Corte costituzionale (sentenza 13 luglio 2017, n. 180) ha ritenuto non necessario anteporre l’intervento chirurgico di “normoconformazione” al cambiamento anagrafico di sesso, che può essere disposto «laddove la persona interessata abbia già esercitato in maniera definitiva il proprio diritto all’identità di genere (ad esempio, manifestando la propria condizione nella famiglia, nella rete degli affetti, nel luogo di lavoro, nelle formazioni di partecipazione politica e sociale), ancorché senza interventi farmacologici o chirurgici sui caratteri sessuali secondari».

Come si vede, l’evoluzione del concetto di identità personale comincia ad essere collegato a elementi di socialità relazionale e non più al solo riserbo, che pure si può vantare in ordine alla propria vita privata.

Ivi, 157-158

Insomma, nel lungo periodo abbiamo l’affermazione (problematica per molti aspetti) di una teoria giuridica che interpreta il diritto come il baluardo di resistenza dell’individuo, del singolo, alla collettività, allo Stato; nel medio periodo però abbiamo avuto l’espansione imprevedibile delle possibilità di conoscere, immagazzinare, analizzare e trasmettere dati sulle persone (e perfino sulle masse). Il risultato sembra essere che da un lato si rivendica il diritto a non «dichiarare la propria religione o i propri convincimenti politici» (ibid.), e dall’altro quello a viverli in dimensione pubblica: così il voto di un leader politico resta ufficialmente segreto e tale resta il convincimento religioso di un ministro di qualsivoglia culto, malgrado questi (come l’altro) faccia pubblica professione di quelli. Analogamente – ed ecco come la questione tocca l’àmbito del Diritto Ecclesiastico – anche gli avamposti giuridici della gender theory rivendicano la facoltà di valersi di analoghe tutele: poter dire ai quattro venti il proprio sesso a prescindere dall’obbligo di “fornirne una prova”, e al contempo sottrarre all’opinione pubblica il potere di obiettare in alcun modo. In questo come nei precedenti casi si tratta sempre di “libertà di coscienza” e di “identità personale”: entrambi concetti vaghi e inafferrabili, ma potentissimi principî del diritto moderno.

L’indeterminatezza di una definizione giuridica esaustiva dell’identità personale non ha […] impedito alla Corte costituzionale di considerare apertamente il “diritto alla identità” come un diritto garantito dall’art. 2 Cost. (sentenza 3 febbraio 1944, n. 13); con esiti ancora ambivalenti, dato che il diritto in parola non si presenta tanto come quello di vedersi rappresentati come si desidera, ma più precisamente di vedersi rappresentati come si è.

Ivi, 157

Studiare Diritto Ecclesiastico, insomma, aiuta ad affrontare i problemi della vita quotidiana e i dibattiti dello scenario politico fornendosi di molte conoscenze che, nel complesso, costituiscono le direttrici di una consapevolezza civica della quale anche i credenti, sia per la riflessione personale sia per l’apostolato religioso sia per l’azione politica, possono giovarsi grandemente.

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Pierluigi Consorti, Diritto e religione. Basi e prospettive, Laterza 2010-2019