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Devo amare la mia croce o liberarmene? La risposta in un cortometraggio

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Catholic Link - pubblicato il 19/07/20

di Cristian García Zelada

Più di dieci anni fa mi è stata diagnosticata una malattia incurabile. Ho cercato di scoprire tutto quello che la riguardava per essere preparato a ciò che sarebbe potuto accadere, ma c’è qualcosa alla quale nessuno avrebbe potuto prepararmi: la grande montagna russa che implica il fatto di portare una croce di questo tipo per tutta la vita.

Non credo di aver ancora attraversato tutte le tappe, perché si rinnovano sempre, quasi in modo ciclico. Ho vissuto momenti di forte dolore e profonda tristezza, ma anche mesi interi di fiducia nel fatto che un giorno Dio mi curerà. E anni interi col timore di aggravarmi e di non poter continuare a perseguire i miei sogni.

Il “tempo ordinario”

Nonostante tutto questo, credo che la tappa per me più difficile sia quello che definirei il “tempo ordinario”. Mi emoziona pensare che si avvicina la Pasqua o il fatto di cercare di vivere nel modo più profondo il tempo di Pentecoste, perché sono tempi forti.

A volte, però, l’itinerario più difficile è il Tempo Ordinario, in cui un giorno si può vivere tanto la speranza della Resurrezione quanto il dolore del Getsemani, senza un iter stabilito.

Con una malattia incurabile accade lo stesso: quando si aggrava è molto difficile, ma in qualche modo si trova la forza. Dall’altro lato, nei momenti in cui si ha più salute la speranza ispira a rischiare molte cose nuove.

Una forte lotta interiore

Spesso nel “tempo ordinario” si verifica una grande lotta interiore: “Devo chiedere a Dio la salute o dovrei chiedergli di aiutarmi ad amare questa croce? Sono desideri contraddittori?”

A partire da questa esperienza ho scritto il monologo “Passi per sperare in qualcosa che non arriverà mai”. In questo breve cortometraggio, ho cercato in qualche modo di riassumere quello che per me – e forse per molte persone in situazioni simili – è un itinerario quotidiano di abbandono.

Tre pilastri

In primo luogo, bisogna accettare che c’è un dolore forte nel passato che può averci segnato. Accettare che forse più di una volta sorge un leggero risentimento nei confronti di Dio e delle circostanze esteriori. Non avere paura o timore di accettare che fa male, e che come ogni dolore dà fastidio.

In secondo luogo, bisogna evitare il senso di colpa di fronte alle cose che non possiamo cambiare o che semplicemente non dipendono da noi, come una malattia o il dolore di veder andare via una persona amata. Dobbiamo smettere di chiederci dove abbiamo sbagliato e ricordare che, anche se non vogliamo, ci sono molte cose che ci superano.

In terzo luogo, dobbiamo abbracciare l’impotenza che la situazione può provocarci. Ci darà fastidio e vorremo fare qualcosa al riguardo – siamo umani. Non per questo, però, dobbiamo aver paura di dire “Non ce la faccio” o “Ho paura”, sapendo che Gesù ha fatto lo stesso nel Getsemani.

A mio avviso, questi pilastri devono essere sempre accompagnati dalla fiducia nel fatto che al di là di tutto Dio ha la nostra vita tra le mani, e se un giorno vorrà potrà toglierci quella croce che ha permesso che ci caricassimo. Anche se si tratta di una “malattia incurabile”. È per questo che, anche se sembra contraddittorio, cerco sempre di vivere questi “Passi per sperare in qualcosa che non arriverà mai”. Perché chissà, forse un giorno arriverà.

Qui l’articolo originale pubblicato su Catholic Link.

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