Riflessioni sulla fortunatissima pellicola targata Netflix con Anthony Hopkins e Jonathan Pryce: la narrazione delle “due ecclesiologie antitetiche” è un usato garantito della divulgazione ecclesiale, però diventa insostenibile appena si voglia appoggiarla a un minimo di fondatezza documentaria. Invece c'è un'altra cosa che i documenti dicono…
Non mi ero interessato a “I due Papi”, anche se fui tra i primi a imbattermi nella gigantografia che campeggia su un palazzo della Santa Sede in Via della Conciliazione, quando la affissero. Neppure mi sono soffermato a riflettere sul perché non mi organizzarsi per vederlo: in parte avrà giocato un ruolo la mia ormai già da molti anni enunciata perplessità circa la sovraesposizione mediatica della figura del romano pontefice; in parte giudicavo (e non ho cambiato idea) questa produzione un pezzetto della guerra fredda tra Sky e Netflix, ovvero la carta da contrapporre a “The Young Pope” e all’imminente “The New Pope” di Sorrentino1 – guerra fredda alla quale m’interesso come durante la Guerra Fredda s’interessava alla corsa alla Luna un pastorello eritreo beatamente ignaro del fatto che il pianeta potesse saltare in aria da un giorno all’altro.

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Una produzione di primo rilievo
Adesso però l’ho visto, “I due Papi”, sollecitato da molte richieste di un parere (buoni ultimi mio fratello e alcuni lettori), e devo dire che mi ha fatto uno strano effetto: al crescente fastidio che mi provocava la prima metà del film si è contrapposto un crescente piacere nella seconda metà. E non perché la seconda metà sia “fatta meglio”: quanto alla regia, alla fotografia, a musiche, costumi e trucco, si tratta di un lavoro di primo rilievo (e non si rifletterà mai abbastanza su come gli artisti credenti sembrino incapaci, almeno nella nostra epoca, di dare alla semiotica della chiesa la luce che le offrono certe produzioni secolari); un elogio a parte meritano le interpretazioni dei protagonisti, di Anthony Hopkins e Jonathan Pryce, che riempiono quasi da soli un film dialogatissimo. A momenti la mimesi delle gestualità caratteriali fa tracimare la sospensione dell’incredulità in vera e propria illusione che gli interpreti siano gli stessi Benedetto XVI e Bergoglio/Francesco.
E invece non si tratta di loro, di nessuno dei due, in senso proprio e stretto: quel che nella seconda delle due ore di film mi si è fatto progressivamente sempre più chiaro è che “I due Papi” racconta, sí, la vicenda umana ed ecclesiastica dei dioscuri dell’ultimo decennio della Chiesa cattolica, ma lo fa – malgrado i numerosi spezzoni di repertorio giornalistico inseriti nel lungometraggio – fuori dal genere documentaristico. Negli appunti che prendevo – mentre già storcevo il naso su questo fantomatico cardinal Ratzinger che non vuole neppure salutare il confratello argentino in conclave – avevo scritto “verificare passione per gli Abba”: quando ho visto che Dancing Queen era diventata la colonna sonora del conclave (pure riprodotto con grande accuratezza!) ho cominciato a capire che forse ponevo male la domanda2, perché quel profano fischiettare “carmen hoc” si compone con le passioni per il San Lorenzo e per il tango in un amalgama non inverosimile.
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Allo stesso modo, e converso, il cardinal Ratzinger non ha mai pronunciato il mantra “una sola ed eterna verità immutabile”, quasi fosse la formula di un incantesimo col cui potere magico arginare la “dittatura del relativismo” (questa, sì, formula attestata), né ha mai perso di vista la natura mistica della Chiesa (onde essa non può trovarsi sostanzialmente “in pericolo”)… ma tutto questo concorre alla formazione di un personaggio che – nella narrazione prevalente – non è inverosimile.
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Bergoglio/Benedetto XVI – la fusione in un doppio
Ora, è stato da qualche parte detto – ma non ho approfondito, anche solo per ragioni di tempo, tutto quanto su questo film è stato scritto – che ciò alimenterebbe il cliché del “Bergoglio unico buono dopo innumerevoli cattivi”: ecco, questa mi pare un’impressione insostenibile dopo la visione della pellicola, perché il cardine della vicenda narrata è il prolungato (e assolutamente non documentato!) colloquio tra Benedetto XVI e il cardinal Bergoglio. «Ma è vero che Bergoglio voleva dimettersi dopo l’elezione di Benedetto XVI?», mi ha chiesto un lettore: e devo ammettere che la domanda mi ha messo la pulce nell’orecchio, da quanto sia assurda anche solo l’idea che un cardinale arcivescovo possa comportarsi come un capoufficio ove il nuovo amministratore delegato della sua azienda non fosse di suo gradimento. Evidentemente la storia delle dimissioni di Bergoglio è un’invenzione letteraria funzionale ad attivare un doppio narrativo con le dimissioni di Benedetto XVI (che invece sono storia): è su questo cardine – dicevo – che la storia comincia a girare, perché i due protagonisti, esemplari di due modi di vedere la Chiesa dal di fuori3, più che delle proprie autentiche persone, convergono sensibilmente verso la fusione in un doppio4.
Ciò si fa evidente nella seconda ora del lungometraggio, quando in condizioni di attiguità spazio-temporale (la lunga conversazione nella Cappella Sistina e nell’adiacente Stanza delle Lacrime) si affiancano le due confessioni sacramentali – la prima delle quali (quella del Cardinale al Papa) coglie di sorpresa perché introdotta dagli epiteti “figlio” e “padre” che s’inseriscono quasi inavvertitamente nel dialogo. Questo contestualizza anche l’enfatizzazione delle responsabilità di Benedetto XVI nel caso Maciel (anzi, stando ai documenti noti si dovette solo alla sua tenace acribia la risoluzione chirurgica di quell’orrenda cancrena ecclesiale), e non a caso l’audio sfuma proprio dove si dettaglierebbero le presunte negligenze dell’allora cardinal Ratzinger5: esse sono funzionali ad avvicinare Benedetto XVI a Bergoglio, il quale aveva appena ripercorso con dolorante commozione il drammatico periodo in cui le responsabilità ecclesiastiche lo posero davanti al persistente dilemma se denunciare profeticamente il regime di Videla ed esporre la Compagnia alle sue rappresaglie oppure lavorare sottobanco per salvare il salvabile.
La scena della pizza con Fanta (vera passione di Benedetto XVI!), consumata dai due massimi ecclesiastici tra una confessione e l’altra nella Stanza delle Lacrime (e pure lí Benedetto invoca l’intercessione del Poverello), supera in bellezza anche quella del vegliardo pontefice che a Castel Gandolfo insiste perché il cardinale non spenga il televisore sintonizzato su una partita di calcio e poi suona per lui una ninna nanna introducendola con lieve ironia: «Al pianoforte non sono infallibile… però mi diverto».
Quando accomiatandosi dal Papa il cardinale gli insegna qualche passo di tango davanti agli occhi increduli dell’autista che lo accompagnerà a Fiumicino, la fusione dei personaggi è pressoché compiuta, e proprio a questo punto i due si avvicinano finalmente ai loro eponimi reali: due uomini anziani, ciascuno nell’ultima fase di vite assai diverse ma analogamente ricche di esperienza, luci e ombre, che si vogliono bene e si ripongono a vicenda in un abbraccio eterno6.

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La svista storica
A fronte di quest’impianto cosí ben strutturato colpisce la disattenzione su certi punti (marginali ma non irrilevanti): rileggendo il fascicolo di Bergoglio Benedetto XVI narra di come il cardinal Antonio Quarracino (arcivescovo di Buenos Aires) avrebbe notato Bergoglio durante una conferenza da lui tenuta nel 1988, e lo avrebbe segnalato alla Santa Sede per averlo come Vescovo Coadiutore. In effetti le cose andarono piú o meno cosí, e il 27 giugno 1992 Quarracino sarebbe stato il consacrante principale, su mandato apostolico di Giovanni Paolo II, del vescovo Bergoglio. Solo che la conferenza di cui Benedetto XVI parla è datata 1998 (e difatti Bergoglio ha già le insegne episcopali – per non parlare del fatto che Quarracino morí il 28 febbraio di quell’anno, quindi sarebbe stato comunque improbabile che al massimo in due mesi egli se ne sia innamorato al punto da volerlo e ottenerlo come successore naturale).
La cosa vera (che però manca)
Una cosa invece mi aspettavo di vederla, in questo film, visto che poteva essere usata nella sceneggiatura come l’unico appiglio a tutto il romanzo fanta-ecclesiologico svolto da Anthony McCarten e Fernando Meirelles: nel penultimo Angelus di Benedetto XVI, infatti, il 17 febbraio 2013, durante i saluti nelle varie lingue, a cinque gruppi linguistici chiese preghiere per sé, per la Curia e per gli esercizi spirituali che avrebbero iniziato quella stessa sera; soltanto all’interno del saluto agli ispanofoni7, dedicando un saluto «en particular al grupo del Colegio sacerdotal argentino de Roma», chiese preghiere
por mí y por el próximo Papa, así como por los Ejercicios espirituales, que empezaré esta tarde junto a los miembros de la Curia Romana.
Il vecchio e il nuovo
In ultimo, non so certo che cosa pensino Benedetto XVI e Francesco di questa produzione, né quali vie siano state praticate per ottenere la collaborazione della Santa Sede8: da non entusiasta del crescente romanzo sul pontificato mi dico che, tutto sommato, questo film potrebbe ottenere il risultato positivo di mostrare che l’essenza del Papato non risente dell’umanità di quanti sono via via chiamati a coprirne l’ufficio – e che anzi ne esce perfino rafforzata.
Non posso fare a meno di ricordare, infine, la memorabile risposta che in Luce del mondo Benedetto XVI diede a Peter Seewald quando il giornalista lo incalzava: «Lei è la fine del vecchio o l’inizio del nuovo?» – «Entrambe le cose».