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I modi di dire, un ponte millenario tra cultura di popolo e d’élite

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Giovanni Marcotullio - pubblicato il 15/06/20
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Siamo abituati a pensare che l’arrembante “civiltà digitale” abbia stravolto i nostri modi di fare e di pensare, e se certamente questo è vero per diversi aspetti e da più punti di vista, resta altresì indiscutibile che certe sue dinamiche sono “solo” state potenziate dai nuovi mezzi tecnici, ma restano analoghe ad altre verificatesi in epoche e condizioni passate. In una delle ore maggiori della civiltà europea un illustre studioso mise mano a un monumentale catalogo della sapienza occidentale, un’opera che resta utile anche ai nostri giorni.

Il problema delle citazioni sull’Internet è che non sai mai quali sono vere.

Abraham Lincoln
(ma attribuita anche a George Washington)

Tempo fa mi capitò sotto gli occhi un meme con questo folgorante apoftegma che un nostro sagace contemporaneo ha formulato e pseudoepigrafato: “meme”, “apoftegma” e “pseudoepigrafia” – tre parole inusuali che però fanno più che mai parte della nostra vita di homo sapiens del XXI secolo. Tutte e tre vengono dal greco, anche la prima – che non è più inglese di “media” ma bensì rimanda (da μίμημα) alla radice greca di “imitare”.

Tre parole che usiamo tutti anche senza pronunciarle

Un meme ben riuscito è infatti una sapida icona progettata per circolare sui social e veicolare un’immagine e poche parole: una sezione impressionante del traffico sul web si deve a questo genere letterario, al quale sono consacrate intere sezioni dei social (e alcuni social, come Instagram, vi nascono naturalmente predisposti); app e servizi online, gratuiti o a pagamento, aiutano gli utenti a confezionare in men che non si dica il proprio meme, nella speranza che diventi virale.

L’immagine è importante, come si capisce, ma non lo è meno la frase, che per invitare all’imitazione dev’essere davvero memorabile: un apoftegma, appunto – una sentenza lapidaria e incisiva che esprima un concetto da noi pensato al meglio delle nostre possibilità. Solo che non è da tutti coniare frasi immortali, e allora volentieri ricorriamo a quelle pronunciate da altri («La citazione è un utile sostituto dell’arguzia», scrisse Wilde): così nascevano già molti e molti secoli fa le raccolte di apoftegmi, specialmente a contenuto sapienziale e parenetico (si ricordino per tutte le antiche raccolte di “detti dei padri del deserto”).

Capita però che a ognuno di noi venga in mente una frase decente, e che allora desideriamo farla circolare: da una parte vorremmo legare ad essa il destino del nostro nome, dall’altro troviamo che la frase possa avere migliore fortuna sotto un più blasonato patrocinio, e allora la attribuiamo a un autore affermato e stimato – questo si chiama “pseudoepigrafia”, ed è una pratica nata con la stessa letteratura. Gli autori più importanti e gettonati della storia della letteratura universale – intendiamo quindi Platone, Confucio, Shakespeare e pochi altri mostri sacri – vengono quotidianamente resi protagonisti di uno stillicidio di citazioni – e ai primi si aggiungono moltissimi “minori” di ogni taglio e risma, da Dostoevskij a Martin Luther King, da Madonna a santa Teresa d’Avila, da Churchill a Dwayne Douglas Johnson – che è tecnicamente impossibile controllare e verificare una per una. Quando a Basilea Johannes Froben produceva la prima edizione a stampa delle opere di sant’Agostino gli si imponeva di revisionare continuamente l’edizione perché alcune opere risultavano spurie secondo le ricerche che gli umanisti andavano facendo (e tralascio l’immensa mole di lavoro che comportava la riedizione di simili opere): «Non è colpa mia – precisava l’Editore in una nota all’ennesima edizione – ma dell’incontrollabile fortuna letteraria dell’autore». E mica era una posa: i libri costavano ancora relativamente cari, oltre a comportare uno sforzo tecnico-lavorativo enorme, e qualcosa si sarà pure dovuto dire ai signori che solo uno o due anni prima avevano sborsato un patrimonio per portarsi a casa le Opere di Agostino… e si ritrovavano ora le pagine ancora intonse e l’edizione già superata. Né mancavano gli avventurieri dell’editoria che su queste dinamiche marciavano…

Citazioni con troppi padri… e citazioni orfane

Ho raccontato queste cose e mi sono soffermato in particolare sul Froben (ma lo stesso si sarebbe potuto dire almeno sulla veneziana Aldina e sui Giunti fiorentini) per ricordare come ogni rivoluzione tecnica, caratteristiche di alcune epoche (ieri la stampa a caratteri mobili, oggi l’internet), conduca a una “riedizione” – è proprio il caso di dirlo – di dinamiche ataviche, quali sono appunto quelle degli apoftegmi, della pseudoepigrafia e dei meme, che vanno dai padri del deserto a Instagram.

Due tendenze “sociologiche” si esprimono con alterne fortune, dai monasteri del Sinai ai social network passando per le cinquecentine: da una parte l’interesse dossografico che vorrebbe rendere edotto il lettore su chi effettivamente ha detto cosa; dall’altra il gusto puramente sapienziale di affastellare frasi significative e pregnanti.

Ora qui si apre lo spazio per delle “citazioni” particolari, che costituiscono un genere a parte proprio col loro essere “adespota” (cioè “prive di autori”): sono i modi di dire, i proverbi, che anzi talvolta vengono paradossalmente citati dai grandi autori nelle loro opere (quanti sono i detti raccolti da Manzoni ne I promessi sposi?). Si tratta di “citazioni popolari”? Dipende che intendiamo: non necessariamente nel senso che le ha coniate il popolo, ma sempre nel senso che sono assurte a indicatore di una cultura diffusa, comune, e che talvolta in società vaste e durature sono state l’esile ponte tra la sponda della “cultura colta” e quello della “cultura incolta” (se mi si passano i polittoti).

Dalla Bibbia ebraica all’umanesimo europeo

Non a caso la Bibbia include un libro dedicato proprio alla raccolta di queste “citazioni di sapienza comune”, e che abbraccia almeno i quattro secoli dal IX al V a.C.: si tratta del libro chiamato appunto dei Proverbi. Né quello è l’unico libro biblico che raccoglie le paremie (parola greca che esprime il genere): basti pensare che l’evergreen “chi trova un amico trova un tesoro” si legge da decine di secoli in Siracide 6,14).

All’inizio del XVI secolo (la prima edizione è del 1508, l’anno in cui il giovane Martin Lutero, fresco di professione religiosa e di ordinazione sacerdotale, cominciava a insegnare dialettica) quello che resta forse in assoluto il più grande erudito dell’umanesimo europeo, ossia Erasmo da Rotterdam, mise mano a un’imponente raccolta di proverbi, pubblicata col nome latino di Adagia, e dedicò parecchie pagine introduttive all’apologia del genere, che alcuni esponenti della “cultura colta” osavano guardare con sufficienza:

Per cominciare dai Greci, chi fu più “proverbiologo”, se così posso esprimermi, del grande (per non dire divino) Platone? Aristotele, filosofo peraltro serissimo, non si sente in alcun modo impedito di intessere in quei suoi grandi trattati numerose paremie, come piccole gemme. Lo imitò in ciò, come in molti altri aspetti, Teofrasto. Plutarco poi, solenne e religioso autore, quasi austero, di quanti numerosi adagi rigurgita in ogni dove! […]

Chi poi non onorerebbe quasi come una espressione sacra e adatta ai misteri la paremia, dal momento che Cristo in persona – che noi dobbiamo sempre avere come esempio – sembra essersi compiaciuto di questo genere di frasi? Fra i Greci si trova l’adagio “dal frutto riconosco l’albero”. Parimenti, in Luca [6,43] si legge: «Non c’è albero buono che produca frutto cattivo, né albero cattivo che produca frutto buono». […]

Ma se ancora l’adagio sembrasse una piccola cosa, ricorderemo che tutto ciò va valutato non per la mole, ma per il valore. Chi mai, che fosse sano, non stimerebbe di più gemme anche piccolissime rispetto a enormi sassi? Come nei più minuti animali – seguendo Plinio [11,2-4] – ad esempio il ragno e la pulce, il miracolo della natura appare maggiore che nell’elefante, se solo si riesce a contemplarli da vicino, allo stesso modo, nelle opere scritte, non raramente quel che è piccolissimo ha il massimo valore.

Erasmo da Rotterdam, Prolegomeni agli Adagia, V passim (alle pagine 44-47 dell’edizione italiana di Bompiani [la prima completa!] a cura di Emanuele Lelli, quella che teniamo presente in queste pagine, con minime variazioni di resa).

Fortuna dell’impresa erasmiana e sua attualità

L’opera fu fortunatissima e richiese continui aggiornamenti fino al 1536 (anno della morte di Erasmo, non ancora sessantenne): da una parte le copie andavano via come il pane, dall’altra gli infaticabili umanisti riesumavano continuamente dalle biblioteche medievali testi classici di cui si era perduta memoria, e questi aggiungevano altro materiale alle ricerche dell’erudito olandese; dato che si procedeva a nuove edizioni, l’occasione veniva propizia per emendare errori delle precedenti (soprattutto imprecisioni nei riferimenti – approntati da principio a memoria).

All’epoca Erasmo intese mostrare la continuità carsica che la cultura popolare aveva conservato con l’antichità classica, e quindi – secondo la temperie dell’epoca e secondo il suo strepitoso talento – corredò le quasi quattromiladuecento voci dell’ultima edizione con eruditissimi commenti che mostravano al lettore come i modi di dire tuttora in voga siano stati onorati nei secoli dall’uso di autori importanti che ne fecero veicolo di grandi concetti.

L’intento dell’Umanista resta validissimo anche ai nostri giorni, ma per noi – se si vuole – c’è un portato aggiuntivo: la coscienza moderna di Erasmo può servire da utile antidoto alla sciocca superbia della nostra, nel senso che come la grandezza del suo umanesimo si nutrì di sincera ammirazione per l’opera di antichi e di moderni, recuperata e conosciuta a fondo, così la trascurata ricchezza del nostro patrimonio può aiutarci a rinsavire dalla sbornia postumana che dopo l’“umanesimo assoluto” (De Lubac disse “umanesimo ateo”) ci ha scaraventati naufraghi sul lido deserto del nichilismo.