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Posso “riconfessare” i miei peccati?

CONFESSION

asiandelight|Shutterstock

padre Paulo Ricardo - pubblicato il 11/06/20

Cosa dice la Chiesa al riguardo?

Un peccato già confessato e perdonato può essere nuovamente esposto nel sacramento della Confessione? Prima di rispondere a questa domanda, osserviamo che non si sta mettendo in discussione l’ipotesi che l’assoluzione del peccato precedentemente confessato sia avvenuta o meno. Sia ben chiaro: se una persona si è accostata al tribunale della Penitenza pentita, ha accusato i suoi peccati al sacerdote che, mediante il potere delle chiavi, ha segnato su queste il segno della Croce, pronunciando la formula di assoluzione, i peccati di quella persona sono perdonati e non c’è da discutere al riguardo.

Qualcuno potrebbe pensare o dire “Non riesco a liberarmi da questa colpa”, “Non mi sento perdonato da Dio”, “Sono condannato”, ma in questo caso bisogna chiedere ai nostri fantasmi di tacere e di ascoltare la voce della Chiesa. “Riconfessare” i propri peccati perché non ci si sente perdonati (e quando non c’è nulla, ovviamente, che permetta di dubitare della validità della prima Confessione) sarebbe un palese oltraggio alla misericordia divina, perché mediante le parole del sacramento Dio opera davvero una trasformazione nell’anima del penitente. Anche se questa trasformazione interna si riverbera spesso sul corpo, portando senso di leggerezza e buoni sentimenti, non è necessario sentirsi perdonati quando si lascia il confessionale – basta avere fede.

Un peccato già confessato e perdonato non ha bisogno di essere accusato nuovamente nel sacramento della Confessione. Non è obbligatorio farlo [1]. La nostra domanda iniziale, però, non era relativa alla necessità di questa pratica, ma alla sua possibilità e convenienza.

La risposta forse colpirà alcuni, ma si possono benissimo ripetere i peccati già confessati in una Confessione precedente, e non per “complesso di colpa” o angoscia, ma per ottenere da Dio più grazie nel cammino della santità.

Comprendiamo innanzitutto l’ordine in cui si verifica la nostra riconciliazione con Dio nella Confessione. Non è che Egli tenga una “lista” dei nostri peccati, e man mano che li confessiamo fa una riga su ciascuno e magicamente veniamo perdonati. No, il sacramento spegne i peccati perché infonde la grazia di Dio in chi lo riceve; è segno e realtà, opera ciò che significa (cf. STh III 62, 1): è questo l’effetto principale di ogni sacramento. Quello della Penitenza, però, insieme al Battesimo, è chiamato “sacramento dei morti”, perché ha il potere di restituire completamente all’anima la vita di grazia che era stata perduta (gli altri sacramenti si chiamano “dei vivi”, perché devono essere sempre ricevuti in stato di grazia).

Ricordiamo ora con il Catechismo della Chiesa Cattolica (§ 1472) che il peccato ha una doppia conseguenza. Il peccato grave ci priva della comunione con Dio, e di conseguenza ci rende incapaci di ricevere la vita eterna; questa privazione si chiama “pena eterna” del peccato. Dall’altro lato ogni peccato, anche veniale, comporta un attaccamento pregiudizievole alle creature che richiede purificazione, sia qui sulla Terra che dopo la morte, nello stato chiamato “Purgatorio”. Questa purificazione libera dalla cosiddetta “pena temporale” del peccato.

Perdonati allora i peccati mortali, ci resta da espiare la “pena temporale” dovuta al peccato. Qui sulla Terra può essere eliminata in vari modi: recitando una preghiera di indulgenza, realizzando un’opera di carità qualsiasi e anche, e torniamo alla domanda iniziale, ricevendo con le dovute disposizioni i sacramenti della Chiesa.

Perché, quindi, raccontare in Confessione le mancanze gravi di cui ci siamo già accusati se non per eliminarne i residui? (O saremo così ciechi da pensare che i nostri peccati passati non abbiano lasciato “segni” nella nostra vita?) Dandoci una ragione teologica per questa pratica, San Tommaso d’Aquino spiega che “anche nella seconda assoluzione il potere delle chiavi perdona qualcosa della pena, perché questa seconda assoluzione aumenta la grazia, e più grazia si riceve, meno impurità del peccato precedente e meno pena da purificare resta. Da ciò deriva che anche nella prima assoluzione si perdona a qualcuno una parte più o meno consistente della pena, in base alla sua disposizione a ricevere le grazie, potendo non essere la disposizione tanto grande da far sì che in virtù della contrizione scompaia tutta la pena […]. Allo stesso modo, non c’è difficoltà ad ammettere che con Confessioni successive scompare tutta la pena, di modo che resta totalmente senza castigo un peccato mediante il quale si è già soddisfatta la passione di Cristo (Suppl. 18, 2 ad 4)”.

Sia ben chiaro, quindi, ancora una volta: l’accusa reiterata di un peccato non si fa per mancanza di fiducia nella misericordia di Dio, ma per rafforzare nel proprio cuore il pentimento per le colpe passate, aiutarci a evitarle in futuro e anche abbreviare il nostro Purgatorio nell’altra vita.

Esiste ancora un’altra ragione per la quale questa pratica è conveniente, e riguarda le cosiddette “Confessioni devozionali”, che le persone più pie realizzano spesso non tanto per accusare peccati mortali recenti, ma per cercare di liberarsi dalle loro mancanze veniali e di aumentare il fervore della loro devozione. Padre Antonio Royo Marín (Teología de la Perfección Cristiana, n. 309) spiega che in questi casi

“è più facile di quanto si crede l’invalidità dell’assoluzione per mancanza di reale pentimento, provocato dall’insignificanza di queste colpe e dallo spirito di routine con cui vengono confessate. Per questo, tenendo conto della validità delle assoluzioni, è preferibile non accusarsi di mancanze di poco conto delle quali non ci sia la volontà di liberarsi a ogni costo – visto che non è obbligatoria l’accusa delle mancanze veniali, e sarebbe irriverenza e grande abuso accusarsi senza pentimento né proposito di emendamento –, facendo ricadere il dolore e il proposito su qualche peccato grave della vita passata di cui la persona torna ad accusarsi o su qualche mancanza attuale per la quale esista dolore della verità e il serio proposito di non tornare a commetterla”.

In questa situazione, la nuova Confessione di un peccato funge anche come forma di “garanzia”, perché non si riceva in modo invalido il sacramento della Confessione. Anche se la mancanza in questione è già stata perdonata, la grazia sacramentale agisce sulle sequele che ha lasciato, curandole e dando forza all’anima per portare avanti la lotta contro il male – che come sappiamo dura fino alla morte.

Vale la pena di offrire un ultimo consiglio riguardo a questa pratica: accusandosi di un peccato debitamente confessato e per il quale si è già ricevuto il perdono, bisogna dire espressamente che si tratta di un mancanza del passato già confessata, con il rischio di indurre in errore il sacerdote riguardo al tempo in cui è stato praticato il peccato.

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