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La figlia di George Floyd merita di piangere suo padre lontano dalle fauci della protesta

GIANNA FLOYD
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Annalisa Teggi - pubblicato il 04/06/20
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Mentre ancora infuriano le proteste in molte parti d’America, Gianna Floyd viene immortalata mentre grida: «Mio padre ha cambiato il mondo». È giusto esporla al mondo intero?Ho studiato e amato gli USA sui libri, pochissimo li conosco per esperienza diretta e proprio quel poco di esperienza diretta mi ha confermato che c’è tantissimo che ignoro. C’è una scena ben impressa nella mia testa, sebbene accaduta 12 anni fa: ero all’uscita di un ristorante a New York e aspettavo mio marito che aveva fatto un salto alla toilette. All’ingresso del bagno c’era un inserviente afroamericano, apriva e chiudeva la porta ai clienti. Mio marito, uscendo, gli chiese qualcosa e lui rispose: «Yes, Sir». Mi pareva di essere tornata indietro di secoli, ma anche no. Mi spiego: il locale era pieno di bianchi, anche tra i camerieri, e il nero – parliamoci schietti – stava sull’uscio del bagno a rispondere qualcosa di molto simile a «Sì, padrone»; eppure il tono e lo sguardo di quell’uomo erano pieni della consapevolezza di chi pronuncia certe frasi anche come sfida di orgoglio. Quello stesso orgoglio ferito e ruggente per cui c’è chi è fiero di definirsi nigger («negro»). Ho intuito in quel momento che capivo pochissimo le vere implicazioni della questione razziale che dilania gli Stati Uniti. Perciò l’errore peggiore che può fare chi è lontano da quel contesto è giudicare l’ondata di proteste attuali fingendo di conoscere la storia e andando a tirar fuori la trita faccenda delle navi negriere e i canti dei raccoglitori di cotone nelle piantagioni del Sud.


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Con questo gigantesco «so di non sapere» mi accingo ad avvicinare la tragica vicenda di George Floyd.

Soffocare

Un pacchetto di sigarette pagato con una banconota falsa, da questo sospetto si è innescato un incendio che infiamma tuttora l’America. Sì, è drammaticamente simbolico che tutto sia nato da qualcosa che va acceso col fuoco. La sera del 25 maggio l’intervento della polizia, degenerato fino a procurare la morte di George Floyd, 46 anni, è stato motivato dalla telefonata al 911 degli addetti del negozio dove Floyd aveva comprato le sigarette e che ritenevano di essere stati truffati.

Ne è seguita una catena di eventi, documentati da video e ricostruzioni precise al secondo, che ha portato al decesso di George Floyd tenuto bloccato a terra per 8 minuti e 46 secondi con il ginocchio del poliziotto Derek Michael Chauvin sul collo. Testimoni presenti riferiscono di aver sentito più volte la vittima implorare aiuto dicendo: «Non respiro». L’intervento dei paramedici e il trasporto in ospedale non hanno potuto salvare l’uomo.

PROTEST, USA, GEORGE FLOYD

Shutterstock

Da questo punto in poi è difficile riuscire a raccontare con chiarezza gli eventi che ne sono seguiti; si può certamente dire che il ruggito della violenza ha generato ciò che è gli congeniale, altra incontrollata violenza. Focolai di protesta si sono accesi in diverse zone degli Stati Uniti, sotto la bandiera della condanna della discriminazione razziale e degli abusi delle forze dell’ordine. Ma è impossibile inquadrare quello che accade per le strade d’America in modo così semplicistico; è qui che la faccenda ci sfugge, e saremmo davvero un po’ ipocriti e anche poco onesti se ci sentissimo coinvolti nella storia di George Floyd solo perché dal nostro divano ci siamo entusiasmati vedendo qualche film su Malcom X e Marthin Luther King.

L’ha capito anche Elettra Lamborghini che non ci fanno una gran bella figura quegli pseudo-pacifisti tutti hastag e mascherine con il volto di Floyd che partecipano al BlackoutTuesday (trattasi di postare una foto completamente nera in sostegno della causa di George Floyd). Molto ci sfugge, non da ultimo che anche dietro queste proteste incorniciate dal motto #Blacklivesmatters ci siano le acque altrettanto torbide e nere di chi usa il caso Floyd per un preciso scopo politico, dare un definitivo scossone al bianco più cattivo di tutti, Mr Trump. E dire questo non significa stare da una parte piuttosto che dall’altra, significa solo dire che è razzismo anche usare la morte di un uomo per scopi diversi dall’esigere giustizia per lui.

Il fumo e le fiamme avvolgono la cronaca che arriva da oltreoceano, si possono mettere in fila certi dati incontestabili e poi ammettere che questa storia è decisamente qualcosa di più grosso e meno lineare della lotta contro l’eccesso di violenza delle forze dell’ordine sugli afroamericani. Che non è materia di discussione, ed è esecrabile. Altrettanto terribile è accorgersi di quanto sia appetibile per molti addentare pezzi di George Floyd e imbandire un macabro banchetto per scopi molto lontani dagli slanci umanitari.

Tribunali, manette, proteste

Da che parte vuoi guardare? In ogni direzione c’è un fiume che ribolle di parole, grida, lacrime, appelli.

Se sbirciamo oltre la porta del tribunale, ecco la cascata di dettagli su cui ci si batterà nei processi inerenti il caso: il soffocamento è stata la vera causa del decesso (l’autopsia ufficiale dice di no, altre due autopsie indipendenti volute dagli avvocati di parte sostengono di sì)? Tutti i poliziotti sono stati licenzianti e arrestati ma è adeguata l’accusa di omicidio volontario nei confronti dell’agente Chauvin? È in qualche modo significativo sapere che Floyd e Chauvin si conoscevano perché avevano lavorato assieme come addetti alla sicurezza di un locale? La platea dei fan di Law and Order ha di che sollazzarsi, discutere, commentare, stracciarsi le vesti.

Se voltiamo lo sguardo verso le piazze e le strade veniamo travolti dall’ondata di proteste. Limitiamoci a una panoramica sommaria.

Almeno 90 persone sono state arrestate la notte scorsa a New York nelle proteste per la morte di George Floyd. Lo riferisce la polizia locale, precisando che le manifestazioni sono state relativamente calme e senza saccheggi. Martedì notte erano stati arrestati 280 dimostranti. (da Ansa)

Altrove la scia di violenza stata ben più devastante, soprattutto a Minneapolis: si è assistito alla devastazione di centri commerciali, fiamme appiccate a molte auto, strade invase dai lacrimogeni e i trasporti pubblici sospesi. Un incendio è divampato all’esterno del commissariato degli ex agenti coinvolti nella morte di Floyd e l’edificio, assediato dai manifestanti, è stato abbandonato. C’è una furia che serpeggia e non è intermanente riconducibile alla voce di chi difende i diritti degli afroamericani; inoltre non c’è più solo la morte di Floyd da contare, ma anche altre. Ed è raccapricciante constatare come certa carta stampata voglia piangere solo vittime nere e altre testate solo vittime in divisa. Ci sarebbe un poema pungente da scrivere sulla scarsa onestà intellettuale con cui i giornali filtrano le notizie per inquadrarle nella propria ideologia di parte, che non è in sé una novità ma in questo caso ci mostra il volto veramente cinico di chi usa la morte altrui come pedone su una schacchiera.

Le manifestazioni, inoltre, continuano in diversi Stati americani (FOTO) anche con scontri violenti: a Detroit, Michigan, un ragazzo di 19 anni è morto durante una sparatoria e una quarantina di persone sono state arrestate, mentre a Oakland, in California, un agente del Servizio di protezione federale è stato ucciso e un altro è rimasto ferito a colpi d’arma da fuoco Il Servizio federale di protezione, che rientra nel Dipartimento di sicurezza nazionale, fornisce servizi di sicurezza e di contrasto presso le strutture del governo degli Stati Uniti. La seconda vittima delle proteste è un 19enne rimasto ucciso a Detroit: qualcuno ha sparato sulla folla dei manifestanti da un suv ed è poi scappato. (SkyTG24)

USA; RIOT; GEORGE FLOYD

Shutterstock

Qualcosa cova dentro questa violenza, il cui innesco è senz’altro il dramma spinosissimo del razzismo nella terra del sogno americano (ed è una matassa molto più intricata del bianco vs nero). Ma c’è altro sotto: ci sono – innanzitutto – le lacerazioni dentro l’anima di ciascuno; lo sfogo brutale è l’alternativa di chi non sa come curarle. Da che mondo è mondo, sappiamo che l’ira è una dea affamata, si nutre di pretesti anche giusti per divampare senza ritegno nel male. Per questo, faticando io stessa a trovare una luce sensata in mezzo alla nebbia infuocata di queste proteste, ho trovato nelle parole di Davide Rondoni l’orizzonte più ampio e giusto da fermarmi a fissare la scena; e la prima cosa da dire è che ci sono molti punti incandescenti sul globo:

Le radici che infiammano tali proteste sembrano lontane tra loro: la rabbia razziale in Usa, le difficoltà economiche altrove, la insubordinazione alle regole imposte con stile autoritario in nome del virus in altri luoghi. Le proteste dei giovani a Hong Kong sembrano invece differenziarsi per richieste di libertà basilari e per stile non violento. Radici diverse per fenomeni diversi ma tutte accomunate da un carburante, l’ira, pronto a infiammarsi per motivi o pretesti diversi, ma di certo largamente disponibile e facile a accendersi. (da Quotidiano.net)

Allora mi sono chiesta: che il punto allora sia altro? Di cosa ha fame l’uomo che si ciba di violenza (dal poliziotto che abusa al militante che protesta incendiando)? E poi: chi vogliamo strappare dalle fauci voraci dell’ira?

Gianna Floyd, figlia non idolo

C’è un volto che spicca tra la folla, è una bambina di 6 anni e la tiene sulle spalle l’ex cestista dell’NBA Stephen Jackson. È Gianna, la figlia di George Floyd e grida: «Mio padre ha cambiato il mondo». Questa immagine non mi ha commosso, ma ferito.

Temo, e lo dico subito, che questa bambina diventi vittima del ventre ingordo dell’ira e della violenza che ancora divampa. Si può fare male a una bambina senza torcerle un capello, sventolandola come una bandiera ed esponendola al pubblico a pochi giorni dalla morte del padre. Non accuso direttamente nessuno, ma mi si stringe il cuore nel vedere la piccola Gianna ospite a Good Morning America, di fronte a una graziosissima giornalista e accanto a un avvocato. C’è anche sua madre, in lacrime, vicino a lei; e penso che questa donna straziata sia stata consigliata davvero male, mi dispiace. Vedo il furbo occhio mediatico pronto a ghermire una preda succulenta e vedo anche lo scaltro animale da tribunale fare le mosse giuste per la battaglia legale che verrà.

Non vedo alcuna sincera cura e premura per la bambina e sua madre. A quel giocatore di pallacanestro che solleva la piccola Gianna sulle spalle e promette di aiutarla, in nome dell’amicizia con il padre, direi: non sollevare la bimba, nascondila al pubblico e mettila al sicuro dove possa vivere un dolore fortissimo in una dimensione umana. Non esporla, proteggila. Le molte voci di questa protesta – alcune sincere, alcune molto meschine – hanno bisogno di idoli per cui infiammarsi ancora di più; ma Gianna ha bisogno di questo? La cosa più terribile che può capitarle, oltre ad aver perso un padre, è quello di convincersi che è la figlia di un monumento e non di un uomo in carne e ossa.

Durante l’intervista la bimba sorride alla telecamera mentre gli altri attorno dicono ad alta voce che ancora non le è stato raccontato come è morto suo padre. È un pugno nello stomaco vederla esposta a un pubblico nell’innocenza di quel suo sorriso, ignara del peso di lacrime che porterà. Ora per lei ci vorrebbe solo un ritaglio intimo di affetti sinceri con cui attraversare il lutto in silenzio, lontano da ogni genere di folla. Non illudiamola che venerare un eroe e diventare la paladina di un movimento antirazzista, lenirà la mancanza di un padre con cui ha vissuto un rapporto vivo e vero, per quanto breve.

Gianna dichiara di voler fare il dottore da grande, per curare le persone; certo non è consapevole di quanto strida questo suo slancio umano con la violenza di cui è stato oggetto suo padre e che inonda le strade del paese, ma l’alternativa all’ingordigia dell’ira è proprio quella che in inglese si definisce «care». La cura è fatta di volti e relazioni, ed è su questo terreno – il più delle volte silenzioso e nascosto – che l’umano operoso e virtuoso disinnesca crimini abominevoli. La protesta, anche quella che dovesse sorgere per i motivi più sacrosanti, sarà sempre un momento rumoroso e passeggero. Il cambiamento accade elemosinando un cuore alla volta, guardandosi in faccia e discutendo anche fieramente, ma sullo stesso sentiero in salita.

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