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L’inno straordinario da cui è scaturito il Movimento Carismatico

EUROPEJSKIE SPOTKANIE MŁODYCH TAIZE

fot. Piotr Olesiejuk

Giovanni Marcotullio - pubblicato il 29/05/20

Ci sono testi eucologici universalmente noti che nel corso dei secoli sono stati musicati e riproposti innumerevoli volte dai più grandi musicisti della storia. Sulla soglia della Pentecoste vi raccontiamo qualcosa della storia del testo più famoso di Rabano Mauro.

Già in questi giorni stiamo alimentando la nostra preghiera (nelle forme consentiteci e coi limiti impostici) con gli inni di Pentecoste che coroneranno la “Settimana di Settimane” che è il tempo pasquale. Tra questi svettano certamente, per importanza e notorietà, il Veni, Sancte Spiritus e il Veni, Creator.


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Una cosa che accomuna entrambi questi (giustamente) fortunatissimi testi è l’essere stati composti più di mille anni fa, nella fioritura di uno dei primi (e meno celebrati) rinascimenti dell’Occidente latino, la cosiddetta “rinascita carolina”. Notker Balbulus, di San Gallo, è uno degli autori in lizza per l’attribuzione del Veni, Sancte Spiritus, mentre meno discussa sembra l’attribuzione del Veni, Creator al più antico Rabano Mauro, che a ventun anni, un anno dopo la consacrazione imperiale di Carlo Magno, dunque nell’801, sarebbe stato ordinato diacono nell’abbazia benedettina di Fulda. Rabano discendeva da una nobile famiglia germanica di Mainz e fin da giovanissimo fu incaricato della direzione culturale della formazione monastica a Fulda: ebbe probabilmente qualche contrasto con l’abate Ratgar (che pure aveva investito su di lui mandandolo a studiare da Alcuino, il grande demiurgo della Schola Palatina) e poco dopo aver compiuto quarant’anni finì per essere eletto abate egli stesso. Era stato maestro di Walafrid Strabo, Servatus Lupus e Otfrid di Weissenburg, e avrebbe consumato gli ultimi anni della vita (strappato a malincuore al suo eremo) come Vescovo di Mainz: per questa straordinaria influenza diretta e indiretta meritò il titolo di “præceptor Germaniæ” (“il maestro della Germania”).




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I suoi alunni diffusero a macchia d’olio le opere da cui promanava la sua dottrina, tra cui spicca certamente il De rerum naturis, vera e propria enciclopedia del IX secolo: la memoria di questo enciclopedismo, tuttavia, è ormai negletta perfino tra gli studiosi, mentre si è diffusa in tutto il mondo la sua opera poetica, soprattutto per il celeberrimo inno di epiclesi allo Spirito Santo.

«Lo Spirito del Signore ha riempito l’universo» (Sap 1,17)

Le opere poetiche e dogmatiche anteriori all’XI secolo sono sempre interessanti al limite del commovente perché – oltre all’indiscutibile bellezza che ha permesso loro di imporsi sull’oblio dei secoli – risalgono a un’epoca in cui l’ecumene cristiana era ancora indivisa (o neppure aveva coscienza di alcune divisioni sepolte dall’avanzata islamica, come quella delle chiese nestoriane d’Asia e dell’antichissima Etiopia). Quando ascoltiamo e cantiamo il Veni, Creator, dunque, respiriamo ad ogni verso l’aria di una Chiesa che già parlava diverse lingue e lavorava indefessamente per la riforma, ma che ancora si concepiva come un’unità indissolubile dalle estremità della penisola iberica alle profondità dell’Asia, e dalla glaciale Islanda fino al torrido seno d’Africa. La cartografia medievale conosceva tre continenti, i missionari non s’erano dati requie già da secoli per raggiungerne le estremità e verso il IX/X secolo cominciarono a pensare, non senza soddisfazione e gratitudine, di aver «predicato l’Evangelo fino ai confini della terra» (cf. At 1,8), secondo il comando che Gesù aveva dato ai suoi pochi istanti prima di ascendere al Cielo, subito dopo aver promesso che per quell’impresa immane avrebbero avuto «forza dallo Spirito Santo» presto mandato su di loro.




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Anno dopo anno la celebrazione della Pentecoste era quindi, nella Chiesa che compose gli inni da noi tuttora cantati, un importante momento di ricognizione e di confessione, nel quale si offrivano a Dio i progressi fatti nell’evangelizzazione e se ne impetrava la forza per proseguire.

«Quant’è bello che i fratelli stiano insieme» (Sal 132[133],1)

Una cosa che mi pare estremamente bella di quest’inno è che la sua forza ecumenica non è venuta meno neppure con gli sciagurati frazionamenti confessionali dell’Occidente: nel 1524, quando la frattura luterana era già progredita a livelli da cui nessuno l’avrebbe riportata indietro, Lutero compose, a partire dal Veni, Creator, il testo tedesco del Komm, Gott Schöpfer, heiliger Geist, che nel 1740 anche Bach avrebbe musicato.

Nel frattempo anche la sopraggiunta confessione anglicana se ne sarebbe fregiata, e il Book of Common Prayer del 1662 avrebbe riportato Come Holy Ghost, our souls inspire, la versione di John Cosin, datata 1627.

Né queste versioni (ben lungi dall’essere le uniche) sono rimaste appannaggio esclusivo delle confessioni separatesi dalla comunione cattolica: nel 1975 l’inno luterano è stato integrato nel Gotteslob, l’innario cattolico tedesco, e nella sua ultima edizione (2013) si trova al numero GL 342.




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Lo stesso si può dire per le versioni anglicane, da quando Benedetto XVI, con Anglicanorum cœtibus, ha disposto che nei libri degli Ordinariati si mantengano

vive all’interno della Chiesa Cattolica le tradizioni spirituali, liturgiche e pastorali della Comunione Anglicana, quale dono prezioso per alimentare la fede dei suoi membri e ricchezza da condividere.

Mentre tutto questo accadeva sono stati scoperti altri due continenti e s’è fatto il possibile (non senza errori, anche gravi) per evangelizzarne gli abitanti. La storia degli inni sacri, tuttavia, può aiutarci a ricordare come l’universo che lo Spirito del Signore intende riempire sia soprattutto la comunità dei credenti, e che per questo lo Spirito dev’essere invocato perché si ripeta ancora e sempre il miracolo in cui, senza perdere le peculiarità delle nostre tradizioni, intendiamo e amiamo tutti le lingue gli uni degli altri.

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