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Cosa ci insegna il caso Enzo Bianchi

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Giovanni Marcotullio - pubblicato il 28/05/20

L'improvvisa notizia della “disgrazia” del fondatore ed ex priore della più famosa comunità ecumenica d'Italia ha scatenato le reazioni dei suoi nemici di sempre. Anche noi da queste pagine più volte avevamo indicato alcune serie criticità del suo pensiero, ma quel che urge ora è osservare e conservare l'Opera di Dio, non “marcare il territorio”.

Ieri sera, al termine di una delle giornate più difficili della sua vita, Enzo Bianchi affidava a una bottiglietta nel web questo messaggio:

In fondatore di Bose usa spesso Twitter per condividere pensieri edificanti, massime sapienziali e spirituali scritte di proprio pugno o mutuate da altri: il filtro dell’esperienza personale vi è sempre implicato, naturalmente, ma stavolta il tweet aveva lo schietto sapore di un’apologia e di una confessione.

«Siamo qui per seppellire Cesare…» (?)

La mia formazione e i miei percorsi mi hanno portato ad apprezzare tanto l’intuizione e l’opera della Comunità di Bose (soprattutto la benemerita editrice Qiqajon!) quanto a provare poca simpatia per il personaggio del suo fondatore (soprattutto in certe narrazioni mainstream): la qual cosa, in sé, desterebbe poca meraviglia – anche la mia primogenita ama il miele ma preferisce tenere a distanza le api (pur ammirandole). La giornata al termine della quale Bianchi prendeva parola con quel tweet disarmato, però – la giornata di ieri –, ha visto molte penne scagliarsi ferocemente contro di lui: «Ecco il vostro santone!», «Ecco il vostro guru!», «Ha scritto biblioteche sulla fraternità e non l’ha saputa vivere!»… e così via, con capi d’accusa e di scherno che giungevano a riecheggiare il sarcastico “ecco il vostro re!” di Pilato (Gv 19,14) e l’ottuso “ha salvato gli altri! Salvi sé stesso…” (Lc 23,35) dei derisori di Cristo. Bianchi non è il Messia, questo è certo, ed è chiaro che se fosse completamente innocente i suoi fratelli di comunità non avrebbero chiesto aiuto al Santo Padre e i delegati di quest’ultimo non lo avrebbero costretto a lasciare il monastero da lui fondato: la banale cattiveria dei derisori dei fratelli, però, l’ipocrisia di chi si lava le mani della comune miseria umana sono tristemente identiche a quelle dei derisori e dei carnefici di Cristo.

È destino degli idoli quello di essere rovesciati, e sempre con furore almeno pari allo zelo della precedente idolatria, ma resta pur sempre vero che l’unica iconoclastia liberatoria è quella che ci scioglie interiormente dai legami disordinati (rispetto a persone, cose, idee, appartenenze…): troppo spesso, invece – e dovrebbe aiutarci in questo l’esame della coscienza –, la “crociata contro gli idoli” si risolve in un misero calcolo politico, cioè nella lotta a un idolo altrui in quanto altrui, insomma in una lotta contro una fazione avversa alla nostra, contro gli altri (i quali – per quanto resti scomoda tale verità – sono tutti fratelli).

Il ministero della sintesi

Poco più di un anno fa ero stato invitato in una cittadina veneta per prendere parola in un incontro culturale; l’indomani, riaccompagnandomi alla stazione, uno degli organizzatori mi chiedeva proprio un parere su Enzo Bianchi, o meglio sul suo controverso personaggio. Risposi che non avevo simpatia per il suo approccio teologico, ma che bisognava comunque prendere atto della grandezza dell’intuizione di Bose e ricevere con gioia i buoni frutti che ne derivavano. «Ma perché lasciarlo parlare senza smentite ufficiali?», m’incalzava l’interlocutore.

E gli risposi che la grandezza della Chiesa sta pure nella sua pazienza, perché da Madre e Maestra qual è essa sa bene che tante volte i suoi figli deviano (dall’ortodossia e dall’ortoprassi) in forza delle spinte interiori esercitate sugli intelletti e sulle volontà dalle situazioni dell’esistenza: neanche con Ario e Lutero (casi neppure paragonabili a quello di Bianchi) la scure ecclesiastica s’è abbattuta all’istante… si deve cercare di salvare tutti, sempre, «sennò noi che ci stiamo a fare qua?» (chiedeva Alberto Sordi nei panni del memorabile frate in Nell’anno del Signore di Luigi Magni). Ricordai inoltre al mio interlocutore che è compito dei vescovi in genere e del Papa in specie esercitare il ministero della sintesi, cioè la delicata arte che tiene in una Chiesa veramente una sensibilità e tendenze disparate ai limiti (ma non oltre) dell’inconciliabilità: «Fu difatti Benedetto XVI, la cui personale impostazione teologica non collima affatto con quella di Bianchi, a chiamare l’allora priore di Bose al Sinodo sulla Parola di Dio in qualità di esperto». Un’esperienza ecclesiale può suscitare domande e può anche non piacere, ma se giunge a nutrire l’esperienza cristiana di molti, nello spazio e nel tempo, i pastori hanno il sacro dovere di coinvolgerla nei grandi momenti di vita ecclesiale… e di tutelarla dalle derive. Così – riprendendo oggi il discorso che con quell’uomo facevo più di un anno fa – avviene che Benedetto XVI (descritto come “di destra” da certo stolto pregiudizio) invitasse ieri Enzo Bianchi come esperto al Sinodo sulla Parola di Dio, e che Francesco (descritto come “di sinistra” da certo stolto pregiudizio) lo allontani oggi dalla comunità da lui fondata.

Provvedimento quanto mai doloroso, certo, ma che denota la libertà di spirito e d’azione del Santo Padre e che si ritrova non privo di precedenti nella storia della Chiesa: si pensi non solo ai giganti Benedetto e Francesco, entrambi in vario modo e a vario titolo esautorati da comunità alla cui esistenza avevano dato un contributo essenziale, ma pure ai meno noti Arsenio da Trigolo (beato) e al servo di Dio Eustachio Montemurro; e ancora a santa Paolina del Cuore Agonizzante di Gesù (al secolo Amabile Visitainer), alla venerabile Maria Nazarena Maione, nonché alla serva di Dio Maria Giuseppa di Gesù Bambino (al secolo Barbara Micarelli). L’amica agiografa Emilia Flocchini, cui devo questo erudito elenco di personalità sconosciute ai più, mi faceva inoltre notare che a differenza di Bianchi le tre suore (tra cui si annovera una santa) furono allontanate dalla comunità mentre erano ancora in carica.

«Illum oportet crescere…»

Ciò ci ricorda non solo e non tanto che, quantunque suoni infamante, l’allontanamento dalla comunità non pregiudica la santità della comunità né quella del suo fondatore, ma pure che (in una vicenda sanamente cattolica) l’esperienza del fondatore non può incombere su quella della comunità come un debito inestinguibile. Codesta è una precisazione che solo le ingenuità personalistiche dell’evo moderno richiedono: ai benedettini di Vicovaro (che si ritenevano molto più “monaci” che “benedettini”), come ai francescani di Bologna (che si ritenevano molto più “minori” che “francescani”) non poneva il minimo problema che stessero brigando per prendere una strada diversa da quella indicata dal fondatore. Il carisma del fondatore è una cosa, il carisma di fondazione un’altra e quello dei “fondati” un’altra ancora, o Padre Pio sarebbe un ricalco del Poverello – e chiunque conosca anche solo di lontano i due vede bene che non è così.

Certo non si parla sempre e solo di santi: le più o meno recenti vicende di scandali e di abusi (dai Legionari di Cristo a L’Arche) ci stanno ancora troppo fisse in mente perché possiamo dimenticarcene. Quel che però è certo è che la Chiesa – tutta la Chiesa, «nell’intero come nel frammento» – è anzitutto e soprattutto opera di Dio, il quale distribuisce carismi e missioni secondo le necessità e le opportunità dei momenti contingenti: per Bose e per Bianchi, come per qualunque angolo di Chiesa e nella nostra stessa vita, «bisogna che Cristo cresca e che noi diminuiamo» (cf. Gv 3,30). Così oggi un cristiano non può che pregare con questa intenzione per Bose e per fratel Enzo, anche e soprattutto se abbiamo avuto e abbiamo ragione di criticarne alcune impostazioni.

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