La scuola è parte della vera emergenza ed è il settore da cui si dovrebbe davvero ripartire. Basta prendere a martellate la nostra bellezza e il nostro futuro.Leggo anche oggi, e con grande beneficio, la rubrica di Alessandro D’Avenia per il CorSera. Dall’ultimo banco, come al solito, mostra di avere una visuale panoramica completa e una vista dodici-decimi che gli permette di mettere a fuoco anche il dettaglio più minuto. Non sta ragionando solo sui ragazzi e la scuola squassati dal terremoto dell’emergenza Covid e della didattica a distanza. Sta dicendo che l’educazione e persino l’istruzione sono ben altro.
Senza relazione non c’è educazione e nemmeno insegnamento
Non servono altri contenuti, ai nostri figli, ragazzi, ai giovani di questa società. O meglio, non servono senza una relazione. Servono una memoria viva, una speranza certa e il gusto della scoperta del proprio valore, dei propri talenti.
Come genitori con 4 figli in età scolare sono talmente d’accordo con D’Avenia che ci fosse un golden buzz del like glielo assegnerei più e più volte (per dire, dei miei altissimi riferimenti culturali). Anzi, al riparo degli schermi e dell’alluvione di contenuti condivisi, mi presenterei dal vivo per stringergli la mano.
Grazie a Dio posso dire che anche nel nostro contesto i nostri figli possono incontrare dei maestri, degli adulti cioè impegnati in prima persona nell’avventura del reale, che non si sottraggono allo sguardo indagatore dei ragazzi e rispondono loro:
Sì, certo che vale la pena vivere, sacrificarsi, gioire e persino morire.
I nostri figli hanno appena saputo, fino a prossimo aggiornamento, come dovranno affrontare gli esami di fine ciclo (medie e maturità) e sono sicura che in qualche modo ne verranno fuori. Ma era questo il risultato da portarsi a casa?
Chi ha resistito, lo ha fatto per via di un patrimonio già accumulato, di quanto era già stato costruito in presenza. Chi soccombe è perché è rimasto solo; penso soprattutto ai ragazzi con disabilità. Ma qual è il tema vero della scuola, prima e dopo “i tempi del coronavirus”?
La bellezza e la memoria sfregiate
D’Avenia nell’attacco del pezzo rievoca un episodio doloroso che ha colpito tutti e che rimane come ferita non del tutto rimarginata per la nostra storia: lo sfregio della Pietà del Michelangelo.
Il 21 maggio del 1972 un uomo, tra le urla, si lanciò con un martello contro la Pietà di Michelangelo in San Pietro. Prima che un pompiere, in visita alla basilica, riuscisse a bloccarlo aveva già assestato 12 martellate alla statua della Madonna, staccandole un braccio e sfigurandole il volto.
Il dolore che proviamo anche solo al ricordo non c’entra niente con il valore economico del nostro patrimonio culturale e artistico, c’entra con la nostra anima di popolo.
Tutti si sentirono feriti nel proprio corpo, perché la bellezza è la memoria viva degli uomini, resa duratura nelle opere del loro agire migliore (politico, artistico, tecnico…). Quel marmo appartiene a me e a voi, come accade con i ricordi di famiglia più intensi.
La Chiesa, anche in questo, è somma maestra: con la celebrazione eucaristica facciamo memoria di una presenza, non di un fatto intrappolato nel passato come un insetto nell’ambra.
Memoria non è infatti un passato da ripetere per una nostalgia malata, ma vita che non muore, presente continuo che penetra i secoli, frantuma gli orologi e offre all’uomo di tutti tempi l’energia di cui ha bisogno per rinnovarsi: trasformare in vita il dolore di una madre per il figlio morto (la Pietà) è una delle vette della memoria. (Ibidem)
Costruttori o distruttori?
E tutti noi uomini, in quella vicenda dello sfregio alla Pietà possiamo essere o l’uomo che sferra colpi col martello, o il pompiere che lo disarma. Ma c’è un terzo ruolo che occorre ricoprire: quello di chi racconta per trasmettere il senso.
Così l’opera, come racconta il documentario «La Violenza e la Pietà», fu riparata con la cura dovuta alle cose irripetibili e le sue cicatrici testimonieranno per sempre che noi siamo o costruttori o distruttori.
I primi, in ogni ambito, salvano il mondo perché ne compongono la memoria, cioè la vita, mentre i secondi la demoliscono. In mezzo ci sono gli istruttori, coloro che istruiscono, cioè donano alle nuove generazioni i ricordi più vivi della famiglia umana: la chiamiamo «scuola».
Non era proprio questa l’occasione per educatori e responsabili fino al più alto grado dell’istruzione dei nostri figli, per fare memoria? Per mettersi in ascolto, davvero, degli eventi, azzardare profonde trivellazioni e attingere da qualche falda particolarmente pura l’acqua necessaria alla vita in questo provvisorio deserto? La scuola lo ha fatto? O non si è fatta piuttosto prendere la mano e animata anche da una sorta di horror vacui non ha fatto che moltiplicare l’erogazione di contenuti?
Ma per comprendere, per conoscere, se questo è uno degli obiettivi, non basta essere esposti ad una fonte di dati.
Ciò che occorre, sempre, persino a distanza è una relazione viva. O almeno accusare il colpo.
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C’è l’impressione fondata che coloro che dovevano prendere decisioni in un momento assolutamente inedito si siano preoccupati quasi soltanto di riempire il tempo dei nostri figli, con dei surrogati educativi. Con innumerevoli eccezioni personali.
Si moltiplicano da mesi iniziative, canali tematici, dirette, tour virtuali. Al punto che se non si esercita una seria autodisciplina, il rischio di sovraccarico e alienazione è altissimo. Mentre, forse, anzi sicuramente, quel vuoto andava lasciato e caso mai abitato.
(…) Come ci siamo presi cura della vita di bambini e ragazzi? Le decisioni, prese spesso fuori tempo (come per l’esame di terza media e di maturità), li hanno aiutati?
A un mese e mezzo dalla decisione di chiudere le scuole, sono stato contattato dal Ministero per partecipare a una lodevole iniziativa: fare, insieme ad altri «Maestri» (titolo del format), due lezioni di 15 minuti su temi a mia scelta, che poi sarebbero andate in onda su un canale nazionale. Ero allettato (o meglio il mio ego lo era), ma poi mi sono concentrato sui ragazzi e ho declinato l’invito, perché l’ultima cosa di cui avevano bisogno era l’ennesima lezione da schermo.
Educare è sempre una faccenda personale
Perché si finirebbe per convincersi che la scuola si possa fare davvero anche così, a distanza e nella totale indifferenza di chi ci sia da una parte e dall’altra dello schermo.
E si capitolerebbe del tutto anche sul fronte delle trasmissione di conoscenze: la DAD è stata un successo, allora basta sminuzzare i contenuti e somministrarli via etere al malconnesso, chiunque esso sia.
No, educare ha a che fare con la persona intera e con la vita intera. E anche con il tempo presente e quindi, paradossalmente, assomiglia più al racconto che alla cronaca. Dire le cose in tempo reale significa saper attendere, tacere, ascoltare.
(…) per far fiorire le persone non basta la ragione ma ci vuole soprattutto la relazione.
Di che cosa, invece, hanno bisogno i ragazzi?
Serviva, e serve, mettersi con loro a pensare, aiutarli ad osservarsi, a scoprire se stessi e a guardare la mappa del viaggio: dove stai andando, dove intendi arrivare? Ti appassiona metterti per mare?
Era questo, che bisognava fare. Se fosse dipeso da me (ma grazie a Dio non è stato così) di sicuro avrei sprecato un sacco tempo. Avrei consigliato di prendere tempo, tanto tempo, la maggior parte del tempo, fino all’estremo, fino a poco prima di doversi mettere in azione. Un po’ come consigliava il sempre citato Albert Einstein:
“Se avessi solamente un’ora per salvare il mondo, passerei 55 minuti a definire bene il problema e 5 a trovare la soluzione”
E mettersi a decidere qualcosa per i nostri figli, per l’educazione, non è decisamente la forma suprema del “salvare il mondo?”
In caso di disastro su tutti i fronti, ripartire dall’educazione
A darmi ragione un episodio raccontato da Franco Nembrini – intervistato da Gigi de Palo –sull’educazione come unica emergenza reale, non solo dove altre priorità sono state evase ma proprio lì dove è tutto da costruire: racconta di un suo incontro legato ad un progetto educativo in Sierra Leone, devastata da guerra, fame e povertà. Il ministro dell’istruzione destinava importanti risorse economiche per sostenere la scuole, comprese le piccole scuole cattoliche appena nate. Alla domanda del motivo, visto lo stato di prostrazione dell’intero paese, il titolare del ministero rispose che era proprio quello il motivo: da dove può sgorgare la vera rinascita, da dove ci si può aspettare una ripartenza se non dall’educazione? E questo vale per ogni tipo di emergenza, almeno come orizzonte, almeno come cosa che ci stia davvero a cuore.
Poiché l’uomo non è affatto quell’essere simile ad una scimmia sbarbata che si è scoperto periferico e ininfluente nell’universo. L’uomo è la creatura fragile ma potente le cui vicende interessano niente meno che Dio in persona e la cui sorte si riflette a tal punto su tutto e tutti che conviene persino all’ultimo degli organismi unicellulari nascosto in qualche grotta sotterranea che ci comportiamo all’altezza della nostra vocazione.
Una goccia nel mare. Che è fatto di gocce.
D’Avenia racconta cosa ha deciso di fare lui, nel suo ambito, per mettere mano a questa emergenza: orientamento. Aiutare i ragazzi a scoprire sé stessi come titolari di una vocazione, a gettarsi nel ragionevole azzardo di osare una strada; e di farlo avendo scoperto qualcosa di sè e della propria originalità alla quale il mondo non può rinunciare.
Troppi ragazzi non sanno cosa fare (università o no? quale facoltà?) e finiscono per scegliere non a partire dalla conoscenza di se stessi e del mondo, ma in base a illusioni o pressioni familiari e culturali, rassicuranti sul breve periodo, fonte di crisi sul lungo. Così, in questi mesi di didattica a distanza, oltre a portare avanti delle lezioni sull’esplorazione della propria vocazione sui canali social, ho preparato per i miei studenti e genitori dei video e dei questionari per identificare i loro segni vocazionali, cioè concentrarsi su ciò che c’è già anziché su ciò che manca, sul futuro anziché sulla cronaca. È una iniziativa personale, non in programma, svolta nelle mie ore: niente valutazioni, semplice esplorazione di attitudini e punti deboli, con l’aiuto dei genitori. Sono convinto che solo quando la scuola sarà giardino di vocazioni, capace di curare la novità di ognuno, sarà veramente democratica, rendendo tutti (non a chiacchiere) liberi (autonomi nelle scelte e nello sviluppo della vita). (Ibidem)
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