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Solo col distacco, anche quello estremo della morte, il vero bene cresce

ALONE, SEASIDE, BENCH

Nun Teachamahanon | Shutterstock

don Luigi Maria Epicoco - pubblicato il 21/05/20

«Ancora un poco e non mi vedrete», così Gesù prepara i suoi all'esperienza di un'assenza che, insieme alla ferita della nostalgia, porta a una presenza ancora più feconda del suo amore.

In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli: «Ancora un poco e non mi vedrete; un po’ ancora e mi vedrete».
Dissero allora alcuni dei suoi discepoli tra loro: «Che cos’è questo che ci dice: Ancora un poco e non mi vedrete, e un po’ ancora e mi vedrete, e questo: Perché vado al Padre?».
Dicevano perciò: «Che cos’è mai questo “un poco” di cui parla? Non comprendiamo quello che vuol dire».
Gesù capì che volevano interrogarlo e disse loro: «Andate indagando tra voi perché ho detto: Ancora un poco e non mi vedrete e un po’ ancora e mi vedrete?
In verità, in verità vi dico: voi piangerete e vi rattristerete, ma il mondo si rallegrerà. Voi sarete afflitti, ma la vostra afflizione si cambierà in gioia.» (Gv 16,16-20)

“Ancora un poco e non mi vedrete; un po’ ancora e mi vedrete”. Il grande tema del Vangelo di oggi è quello dell’assenza necessaria. Tutto ciò che conta per poter rivelare al massimo il suo bene deve passare attraverso l’esperienza dell’assenza, del distacco. Se non avviene ciò allora tutto quel bene si trasforma in idolo. E l’idolatria finisce sempre in tragedia. Se una madre trattenesse davvero sempre per sé un figlio allora rovinerebbe la vita del figlio. Se una maestra di scuole elementari volesse tenere sempre per sé i proprio bambini senza accompagnarli alla scuola media, allora tutto il suo insegnamento diventerebbe una prigione. Se Giovanni Battista avesse trattenuto i suoi discepoli con sé allora non sarebbero mai diventati discepoli di Cristo.

Tutto ciò che conta deve passare attraverso l’assenza, il distacco. In questo senso la morte non è solo qualcosa che ci fa soffrire ma anche la grande memoria di questa assenza necessaria. È infatti proprio nel confronto con la morte che ci accorgiamo se quello che abbiamo vissuto è stato davvero o no un bene. Se infatti la morte di chi amiamo ci fa soffrire ma ci lascia in fondo un senso di gratitudine per tutto ciò che si è vissuto, allora quella morte non è destinata a durare a lungo, e si trasformerà in qualcosa di più grande. Ma se la morte di chi amiamo ci lascia solo l’amaro del lutto, la rabbia del distacco senza nessuna gratitudine per la vita che è stata, allora quella morte è destinata a durare tutto il tempo di quella rabbia, di quel dolore. Gesù stesso ci dice che nel legame con Lui arriva il momento dell’esperienza dell’assenza. I grandi mistici la chiamano notte oscura. È la sensazione di aver perso tutto, anche la fede. Ma se si accetta di abitare quell’assenza, senza ribellarsi e con mansuetudine, allora pian piano ciò che viene fuori da quel buio è una luce indelebile. Questa luce è solo l’ombra della resurrezione finale quando Cristo non soltanto tornerà, ma ridarà a ciascuno ciò che ci sembrava di aver perduto per sempre.

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