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Un’ex Guardia Svizzera scrive le sue memorie su Giovanni Paolo II

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Photo Courtesy of Mario Enzler

John Burger - pubblicato il 18/05/20

Mario Enzler racconta episodi sul Papa polacco e le lezioni che ha imparato al suo servizio

Il 18 maggio ricorre il 100° anniversario della nascita di Papa San Giovanni Paolo II. Migliaia di persone in tutto il mondo ricorderanno un momento in cui si sono imbattuti con l’uomo che è stato Papa dal 1978 al 2005, uno dei pontificati più lunghi della storia.

Mario Enzler ricorda il Pontefice in modo speciale. Ex Guardia Svizzera, ha servito in Vaticano dal 1989 al 1993. In un libro intitolato I Served a Saint: Reflections of a Swiss Guard in honor of the centenary of the birth of St. John Paul II, Enzler ricorda i suoi incontri con Giovanni Paolo II e le lezioni che ha appreso dal Pontefice polacco. Il testo, pubblicato da Newman House Press, ha una prefazione scritta dall’ex biografo papale George Weigel.

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Photo Courtesy of Mario Enzler

Enzler non è stato una Guardia Svizzera tipica, visto che non è nato in Svizzera ma a Bergamo. Dopo il suo servizio, ha lavorato anche come consulente finanziario presso il Vaticano. Si è poi trasferito negli Stati Uniti, stabilendosi nel New Hampshire insieme alla moglie e ai figli.

Ha iniziato a insegnare presso la Busch School of Business presso la Catholic University of America. Rendendosi conto della necessità e della richiesta da parte del clero di imparare capacità imprenditoriali e manageriali, nel 2017 ha creato il master di Scienza dell’Amministrazione e della Gestione Ecclesiale (Master of Science in Ecclesial Administration and Management, MEAM), un programma interdisciplinare che collega le risorse della Busch School, della School of Theology and Religious Studies e della School of Canon Law per coltivare i talenti dei suoi partecipanti perché possano essere pastori più efficaci.

Enzler ha parlato ad Aleteia dei suoi incontri in Vaticano con Papa San Giovanni Paolo II.

Com’è arrivato a diventare una Guardia Svizzera e a servire Papa Giovanni Paolo II?

Sono nato e cresciuto a Bergamo. Terminati gli studi non sapevo cosa fare. Mio padre mi ha detto che avevo bisogno di un po’ di “struttura” nella mia vita, e per ottenerla avrei dovuto unirmi a un esercito. Dico un esercito perché essendo nato in Italia avevo la cittadinanza italiana, ma visto che mio padre era svizzero avevo anche il passaporto svizzero. Dopo averci pensato, l’opportunità svizzera mi è sembrata più adeguata. Non mi importava del fatto di avere il passaporto italiano, perché la mia italianità è insita in quello che sono e nel modo in cui parlo e comunico. E così ho finito per unirmi all’esercito svizzero.

Quando ero nell’esercito sono stato avvicinato da qualcuno che ha detto “A Roma cercano gente, e crediamo che tu sia adatto al profilo richiesto”. Parlavano della Guardia Svizzera. Ho detto “So molto bene cosa sia la Guardia Svizzera, ma non mi vedo vestito come un pagliaccio a stare in piedi per ore senza parlare con nessuno”. Quella persona ha iniziato a ridere e ha detto: “Beh, questa è solo una piccola parte di quello che è una Guardia Svizzera. In primo luogo e al di sopra di tutto, la Guardia Svizzera, dal 22 gennaio 1506, quando è stata istituita da Giulio II, ha un titolo nobile, costituito da tre parole latine”. Ho fatto il liceo classico, e quindi quando ha parlato di quelle tre parole ho detto “Oh, dimmele!”

Defensores Ecclesiae libertatis – Difensori della libertà della Chiesa”. Ho detto “Aspetta un minuto. Non so nemmeno che qualcuno voglia privare la Chiesa della libertà. Perché? Devo saperne di più”.

E quindi si è unito. Com’è andata? Quando è avvenuto il suo primo incontro con Giovanni Paolo II?

Quello che ha trasformato la mia mente e il mio cuore è stato il mio primo vero incontro con Papa Giovanni Paolo II. Mi trovavo nel Palazzo Apostolico, e mi hanno detto che stava per passare, per cui bisognava seguire il protocollo per rendere sicuro il luogo, chiudere la porta e bloccare l’ascensore perché nessuno arrivasse al terzo piano. Quando è arrivato ero sull’attenti. Si è fermato e mi ha guardato, e ha teso la mano come se volesse stringere la mia. E allora gliel’ho stretta, e lui mi ha detto “Lei dev’essere nuovo”, e io ho risposto “Sì, Sua Santità”, e mi sono presentato. E poi mi ha stretto la mano anche con la sua mano sinistra, stringendo la mia tra le sue, mi ha guardato e ha detto “Grazie per aver scelto di servire colui che serve”. E poi se n’è andato.

Quel giorno ho iniziato a capire: “È qualcosa di più grande di quello che pensavo. Quest’uomo è decisamente diverso da chiunque io abbia mai incontrato. Cosa voleva dire?” Penso che abbia letto nel mo cuore in un nanosecondo. Sapeva esattamente cosa doveva dire per far sì che io ascoltassi la sua voce.

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Photo Courtesy of Mario Enzler

Nel periodo in cui lei ha servito sono accadute tante cose, con la caduta del Muro di Berlino e lo scioglimento dell’Unione Sovietica…

Oh, sì. Ero nel Palazzo Apostolico quando è venuto [il leader sovietico Mikhail] Gorbaciov. [Il leader polacco di Solidarność e successivo Presidente della Polonia] Lech Wałęsa è venuto più di una volta, in incognito, magari per pranzo.

Tornando a quando il suo nome ha iniziato a saltare fuori durante il conclave [quello che ha eletto Papa Karol Wojtyła nel 1978], sospetto che abbia capito che la sua leadership avrebbe potuto aiutare la sua Polonia natale – e tutta l’Europa Orientale – a sottrarsi alla tirannia [sovietica] e così via. Aveva una mente politica, era estremamente astuto. Ma era sempre concentrato sull’Eucaristia. Non penso che abbia mai fatto niente guidato dall’emozione. Lo guidava sempre l’intelletto.

Ero lì anche durante l’operazione Tempesta nel Deserto, quando [il generale Norman] Schwarzkopf [ha guidato l’invasione del Kuwait occupato dall’Iraq]. … C’era l’udienza del mercoledì. Avevo appena sentito alla radio che c’era stato l’attacco. Quando il Papa e monsignor Dziwisz sono usciti dall’udienza dovevano passare dove mi trovavo, nel Palazzo Apostolico, e Dziwisz mi ha chiesto “C’è qualche novità?”

“Sì, hanno attaccato”.

Si è voltato e lo ha detto al Papa. E ho visto una grande sofferenza sul volto di Sua Santità.

Il Papa aveva sempre gente a pranzo. A volte era l’ospite dell’ultima udienza, e si andava dal secondo piano al terzo per il pranzo. Se gli ospiti venivano solo per pranzo dovevano passare davanti a noi, e dovevamo farli passare attraverso un ascensore di servizio, perché potessero arrivare direttamente nell’appartamento. Vedevo molta gente venire per pranzo, ma all’epoca non ci facevo molto caso.

Ricorda qualche ospite in particolare?

Aveva una cara amica di nome Wanda Półtawska, che era stata in campo di concentramento [quello nazista di Ravensbrück]. I Tedeschi avevano sperimentato ogni tipo di veleno su di lei. Era molto vicina al Papa. Lei e il marito, a volte accompagnati da figli e nipoti, trascorrevano tutta l’estate [a Castel Gandolfo]. Li ho visti interagire. Penso che avesse un legame speciale con Wanda. Ho avuto il privilegio di testimoniarlo – il rapporto con una donna che rispettava e di cui si curava, e lei era una donna molto umile che aveva affrontato una grande sofferenza.

Il loro rapporto era come quello tra fratello e sorella. Si rispettavano e si amavano a vicenda attraverso Cristo.

Com’è essere una Guardia Svizzera vicina al Papa?

Il lavoro della Guardia Svizzera varia nel corso della giornata. Si trascorrono molte ore da soli, come ai portoni, facendo entrare e uscire la gente, molte ore nel Palazzo Apostolico, assicurandosi che tutto vada liscio e sia sicuro. Ci sono molti eventi in cui si è solo parte del protocollo. Non si interagisce con Sua Santità.

Ma poi ci sono altri eventi, magari in gruppi ristretti, e lui è proprio lì. Sua Santità trovava sempre il modo per venire a esprimere la sua gratitudine per il nostro servizio nei confronti del Successore di Pietro, o per scambiare qualche parola. Non mi sono mai seduto per discutere la Summa Theologia con Giovanni Paolo II; abbiamo solo avuto conversazioni saltuarie sulla vita, il tempo, lo sport, il cibo, le cose semplici.

E ogni volta che l’ho visto mi emozionavo. Ogni volta che parlavo con lui avevo paura. Sapevo che era diverso. Sapevo che aveva una luce. E quando mi guardava con i suoi occhi chiari potevo dire che stava guardando proprio me. Qualcuno una volta mi ha chiesto “Cosa significa essere un santo?”, e io dico sempre: “Ho trascorso molto tempo con lui e molto tempo con Madre Teresa, e avevano qualcosa in comune: quando mi parlavano si concentravano completamente e solo su di me”. Un santo si concentra su una persona alla volta. Quante volte parliamo alla gente e pensiamo a un milione di altre cose o guardiamo chi ci sta intorno o chissà che cosa… Ma con Sua Santità ho sempre avuto la sensazione di essere o al centro, e che la sua attenzione fosse concentrata su di me.

Trascorrere del tempo con lui, quindi, era sempre un viaggio emotivo per me, e un’opportunità. A volte stavo alla sua presenza senza parlare, ma osservando come interagiva con gli altri. Facevo attenzione a quello che diceva e osservavo la sua postura. Era importante per me vedere come muoveva le mani, come articolava la voce, come sottolineava alcuni concetti o rallentava. Era sempre un oratore eccellente.

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Photo Courtesy of Mario Enzler

O guardavo quando celebrava la Messa – quelle grandi a San Pietro o le piccole Messe private -, sempre con meraviglia, come se venisse trasportato da un’altra parte. Stare vicino a lui era un’avventura. Pregava profondamente.

Cos’ha imparato da questo?

Ho imparato che la preghiera è importante, e quando preghiamo dobbiamo essere concentrati su quello che stiamo facendo piuttosto che farlo solo perché dobbiamo. La preghiera è un dialogo aperto. La maggior parte del tempo dobbiamo solo stare in silenzio; dobbiamo aspettare e ascoltare. Almeno nella mia esperienza, Dio spesso sussurra, e c’è quindi bisogno di silenzio. Bisogna essere in grado di fare attenzione anche ai segni più piccoli o alle piccole parole o immagini che Dio mette nella nostra mente o nel nostro cuore. Ho imparato che quando prego è un momento importante, e quindi tutto il resto deve rimanere fuori. Non permetto al telefono di distrarmi; mentre prego devo solo concentrarmi.

Sentiva che fosse arrivato a conoscerla davvero? Pensa che potesse leggerle nel cuore, entrare nella sua sfera privata?

Senza dubbio. L’unicità di Sua Santità era il fatto che se passava e tu eri sull’attenti si fermava e ti guardava, e non diceva niente per 10, a volte 15 secondi. Stava semplicemente davanti a te e ti guardava, il che, per una guardia, metteva un po’ a disagio, perché non ci si poteva distrarre. Lo si poteva fare solo se parlava con te.

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Photo Courtesy of Mario Enzler

Quando mi guardava con i suoi occhi chiari – con l’intensità di un blu che non riesco ancora a ritrovare in un’altra persona – dicevo davvero “Wow, sta guardando me!” Se avessi fatto la sera prima qualcosa di cui non ero orgoglioso avrei pensato “Può vederlo!” Tante volte ho sentito come se potesse vedermi dentro come una risonanza magnetica.

Cosa potrebbe fare una Guardia Svizzera di cui non essere orgogliosa? Non eravate sotto stretto controllo?

Se si ha il giorno libero e si finisce al pub irlandese, si incontra un po’ di gente e si beve un po’ troppo… Si ha il coprifuoco, ma all’improvviso si fa tardi, e la guardia al cancello deve aprire per farti entrare, e deve riferire che sei arrivato in ritardo. E magari è il tuo migliore amico, e gli dici “Questo non è mai successo, vero?”

Ha imparato qualcosa su di sé attraverso la sua interazione con lui?

Assolutamente. La cosa più importante che ho imparato è che il sacrificio è fonte di redenzione. Penso di aver imparato proprio questo guardandolo, leggendo quello che diceva, stando alla sua presenza. Soffriva molto; la sofferenza era nel suo cuore un Vangelo più alto, e il messaggio che ne ho tratto è che il sacrificio porta alla redenzione perché c’è una ricompensa più profonda se compiamo sacrifici per il bene di un obiettivo più elevato e nel servizio agli altri. Ne ho fatto il mio motto. Do sempre tutto ciò che possiedo; non ho paura della sofferenza; non temo di sacrificarmi; è così che agisco con i miei cinque figli e che ho vissuto il mio matrimonio in questi 27 anni. Non ho paura di dire che ho chiesto a Dio la grazia di diventare coraggioso e di non avere paura della sofferenza.

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