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Bisogna guardare a Silvia Romano con compassione, la stessa che vorremmo per noi

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© Agi - Silvia Romano

Lucandrea Massaro - pubblicato il 13/05/20

Se di fronte ad una sorella che torna a casa si vomitano solo cattiverie il problema siamo noi, non lei

C’è un bel fondo sull’edizione di oggi del quotidiano del Papa che è quasi un grido disperato di fronte al mare sconfinato di cattiveria e livore che si legge sul web, alimentato ad arte, a proposito della complessa vicenda di Silvia Romano. Al cuore della questione per l’Osservatore Romano c’è una domanda di amore e compassione da rivolgere alla giovane volontaria e – in fondo – verso noi stessi. Se non abbiamo il coraggio di metterci nei panni di chi, giovane e magari ingenua (o magari no, quanti di noi conoscono Silvia?) decide poco più che ventenne di “dare una mano a casa loro” ai bimbi e alle genti d’Africa, fatta questa scelta coraggiosa – perché ci vuole coraggio a mettersi in gioco in quel modo – si finisce in un incubo che dura 535 giorni. Cinquecentotrentacinque giorni. Un’enormità. Un anno e mezzo, lontano dagli affetti, certamente terrorizzata, in un paese che non è il suo, in condizioni fisiche e psicologiche che possiamo solo immaginare. Torna da una prigionia e cosa trova? Ostilità e odio immotivato. Le accuse della “gente” quali sono poi? Che si è convertita? Che è tornata viva? Che è stato pagato un riscatto (la prassi anche in numerose altre situazioni, quindi non è certo una colpa). Quale colpa ci sarebbe nell’aver scelto di darsi pena per gli ultimi della terra? Chi vedendo le condizioni di vita di quelle terre non ne rimarrebbe coinvolto emotivamente? Come si può essere così duri? Sono troppe le volte in cui Gesù mette in guardia dall’indurimento del cuore perché sia un caso.

Tutti questi giudizi partono da un dato in comune, da un comune sguardo, disumano. Perché disumano è lo sguardo dell’uomo quando non vuole vedere. Quando zittisce, sopprime la compassione che sempre dovrebbe abitare dentro i suoi occhi. La compassione. La capacità di sentire sulla propria pelle il dolore degli altri. E questa storia è piena di dolore, basta saper guardare. Basta osservare con cura gli occhi di Silvia, vedere quanta sofferenza comunichino, quella di una ragazza sequestrata per 18 mesi. Basta confrontare il suo sguardo di oggi a quello di un paio di anni fa, quando i fatti ancora non erano accaduti. Gli occhi di Silvia dicono tutto, ma occorre la volontà di guardarli veramente. Basterebbe questo per zittirei giudici. E se non basta il suo dolore, guardate negli occhi i tanti africani arrivati da poco in Italia, fatevi raccontare le loro storie, rendetevi conto in che condizioni si vive ancora oggi da quelle parti. Perché è senz’altro vero che la disponibilità verso il prossimo è un’attitudine che vive sempre, a prescindere dai luoghi in cui scegliamo di metterla a disposizione degli altri, ma è altrettanto vero che esistono su questa terra intere nazioni che vivono in condizioni inimmaginabili. Senza compassione, l’uomo si erge a giudice, commettendo quella che è la negazione più chiara e ignobile del messaggio cristiano.

Ma c’è ancora qualcuno che resiste, in realtà molti, una maggioranza silenziosa che quando ha visto Silva ha tirato un sospiro di sollievo, ha detto tra sé e sé “Grazie Signore, che ce l’hai ridata“, come se un peso si togliesse dal cuore, come se – in questi tempi difficili di crisi – almeno una bella notizia ce la potessimo meritare e godere. Purtroppo ora dobbiamo scoprire che questo tempo di sofferenza collettivo invece di renderci più fratelli, ci fa incattivire. Invece di sentire il dolore dell’altro come nostro, ora che insieme, per così tanto tempo abbiamo sofferto e sperato, dovremmo avere una sensibilità nuova. Siamo in un tempo in cui il giudizio è un conato: dobbiamo sempre dire la nostra, anche quando non ne sappiamo nulla. Ma le parole di Gesù sul giudizio sono lapidarie quanto le nostre:

“Non giudicate, per non essere giudicati; perché col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate sarete misurati. Perché osservi la pagliuzza nell’occhio del tuo fratello, mentre non ti accorgi della trave che hai nel tuo occhio? O come potrai dire al tuo fratello: permetti che tolga la pagliuzza dal tuo occhio, mentre nell’occhio tuo c’è la trave? Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e poi ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello.” (Mt 7, 1-5)

Ecco allora prima di sentirci offesi da non si sa bene cosa, da questa vita recuperata di Silvia, facciamo un esame di coscienza, chiediamoci cosa ci spinge a giudizi così severi, da quale alto trono di verità e giustizia emettiamo le nostre sentenze, e magari – come il filosofo – sospendiamo il giudizio. Se non per Silvia, se non per non riempire di odio i social network, almeno per noi stessi, che il Giudizio arriva per tutti

“Per questo ti dico [Simone]: le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato. Invece quello a cui si perdona poco, ama poco” (Lc 7, 47)

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