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Silvia Romano si è convertita. Cosa deve sperare ora un cattolico?

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Giovanni Marcotullio - pubblicato il 11/05/20
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Dopo 18 mesi di prigionia, la giovane milanese volontaria in Kenya è stata rilasciata e ricondotta alla sua famiglia di origine. Riaperto l’annoso dilemma dell’ammissibilità di trattative fra uno Stato e dei terroristi, ma uno degli elementi maggiori in gioco è dato dalla conversione della giovane, che si fa ora chiamare Aisha, all’islamismo.

…ma bisognava far festa e rallegrarsi,
perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita,
era perduto ed è stato ritrovato.

Lc 15,32

Questo noto e struggente versetto conclusivo della celeberrima “parabola del figliol prodigo” (o come la si voglia chiamare) basta a raccogliere i sentimenti e i pensieri che hanno dominato l’immaginario pubblico immediatamente dopo l’arrivo di Silvia Romano in Italia. Diciotto mesi di prigionia in condizioni ignote a tutti fino a poco fa, che solo nelle ultime settimane sono state svelate al Ministero dell’Interno e solo nelle ultime ore ai famigliari. «Mi hanno trattata bene, non mi hanno mai picchiata, non ho mai subito violenze». Smentita la storia del matrimonio; smentita (sembrerebbe) la voce sulla gravidanza. Si potrebbe discutere su quanto si possa essere “trattati bene” da rapitori e mercanti di esseri umani, ma sta parlando una ragazza loro prigioniera per un anno e mezzo, e parrebbe di poter ridurre l’affermazione a “mi hanno sempre nutrita, non mi hanno malmenata, non mi hanno stuprata” (il che è già qualcosa).

Ricucire strappi, tessere responsabilità

La nota parabola termina con la festa, e più precisamente con lo scambio di battute tra il fratello maggiore e il padre: neppure è noto se alla fine questo sia riuscito ad aprire gli occhi a quello sul suo essere figlio e fratello, non sappiamo infatti se alla fine entrò alla festa con lui. Certo è che all’indomani di quella festa si sarebbero dovuti affrontare alcuni nodi, inespressi ma inevitabili: tornare a casa significa tornare ad assumersi delle responsabilità, beneficiare di diritti e corrispondere a obbligazioni; significa impegnarsi a tessere relazioni e curarle, rendere ragione (e/o chiedere perdono) di alcune scelte del passato e formulare propositi per l’avvenire… Insomma tradurre la reintegrazione significata dalla festa in un piano di vita. Questo sarà chiesto anche a Silvia, sul livello intimo/famigliare e sul livello pubblico/politico.

La rilevanza di quest’ultimo orizzonte è purtroppo accresciuta dalla spinosa questione del riscatto versato, e stavolta non c’è stata neppure la bugia d’ufficio che negava di aver versato una cifra oscillante intorno ai 4 milioni di euro. Possono gli stati finanziare il terrorismo? Alcuni governi (tra cui l’Italia) lo fanno correntemente, sebbene in modo ufficioso; altri si rifiutano di scendere a qualunque tipo di compromesso con chi rapisce a scopo di estorsione. Che questi ultimi (come USA e UK) perseguano una via muscolare o piuttosto lascino cadere la cosa, l’effetto (paradossale ma neanche troppo) è che il numero di rapimenti di loro connazionali cala: nessuno ruba un oggetto così scottante che non si trova un ricettatore capace di piazzarlo sul mercato. Trattare o no? Intervenire o no? Come che la si metta, si aprono scenari irti di aporie morali – del resto (ma sia detto en passant) in teologia cristiana solo raramente è stata rilevata l’inadeguatezza dell’analogia del riscatto per indicare l’effetto della redenzione di Cristo (e che, Dio deve qualcosa al diavolo?).

La libertà di culto e il sacro dovere che la sostiene

La nostra Legge giudica forse una persona
prima di averla ascoltata e di sapere ciò che fa?

Gv 7,51

Affiora alla superficie del livello politico – ma radicandosi perfino al di sotto di quello familiare – la questione della conversione di Silvia all’islam, attestata e confermata dalla giovane (la quale anzi protesta essere stata libera e spontanea, come pure ha informato la psicologa dell’ambasciata di chiamarsi ora Aisha). Qualcuno ha osservato che sul piano politico i responsabili istituzionali della trattativa avrebbero dovuto chiedere/imporre alla giovane, come contropartita per il già controverso impegno del governo, di vestire abiti occidentali e di rimandare le dichiarazioni sulla conversione. «Se stava così bene perché è tornata?» «Se i rapitori sono così gentili noi che abbiamo pagato a fare?» «Se si è pure convertita non poteva restare là?». Commenti insipienti e superficiali – anche un liceale osserverebbe che le circostanze sono tali da lasciar almeno supporre la sussistenza di una banale Sindrome di Stoccolma –, ma dei quali chi governa dovrebbe farsi carico, nel senso che probabilmente avrebbe fatto meglio a non lasciar spargere questa benzina sulle braci calde di una già discutibile trattativa.

Desta tristezza che la blogosfera cattolica conosca in queste ore un rigurgito di commenti di analoga fattura, nei quali la ragazza viene apostrofata come “traditrice” sul piano civile e come “apostata” su quello religioso. Come se un’italiana non potesse scegliere di abbracciare questa o quella fede. Parabolani della libertà di culto, ma a targhe alterne: molti di quelli che oggi berciano bile sulla ragazza la berciavano ieri rivendicando il loro “diritto alla messa” (diritto che, l’ha ricordato il card. Sarah rispondendo alle loro stesse domande, non esiste in quanto tale) – come se la loro preghiera recitasse “dacci oggi il nostro flame quotidiano” e come se contassero di essere riconosciuti da quanti di loro dicano “guardate come si odiano!”.

In realtà è proprio in quanto italiana che ogni Silvia Romano può liberamente scegliere di abbracciare una religione, un’altra o nessuna: gli articoli 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della Costituzione tutelano su più piani codesta libertà. Ma c’è di più: a sostenere tale libertà e tali diritti c’è un dovere più profondo, che proprio la Chiesa cattolica si gloria di riconoscere, professare e tutelare – quello

di cercare la verità in materia religiosa, utilizzando mezzi idonei per formarsi giudizi di coscienza retti e veri secondo prudenza.

Concilio Vaticano II, Dignitatis Humanæ 3

Lo sappiamo, a mons. Lefebvre il documento non piacque, ma è vero pure che lo firmò, checché se ne dica: e lo firmò perché – benché il tema fosse ambiguo e scivoloso (lungi dalla Chiesa di Cristo affermare che una confessione vale l’altra!) – la formulazione è inattaccabile. Se la fede è necessaria per la salvezza ed è grazia di Dio da imputare a merito dell’uomo, allora essa dev’essere libera; se dev’essere libera, allora bisogna che si abbia diritto ad esercitarla; se si deve avere diritto a esercitarla, allora bisogna che sussista un dovere di disporsi ad essa, quello cioè di cercare la verità. E pur essendo una e semplicissima, per noi mortali la verità viene il più sovente intravista in una lunga penombra con pochi bagliori, tanto è corrotta e affaticata l’umana intelligenza delle realtà spirituali.

Così Giovanni XXIII aveva già autorevolmente sintetizzato nel proprio magistero la viva Tradizione della Chiesa:

Ognuno ha il diritto di onorare Dio secondo il dettame della retta coscienza; e quindi il diritto al culto di Dio privato e pubblico. Infatti, come afferma con chiarezza Lattanzio: «Siamo stati creati allo scopo di rendere a Dio creatore il giusto onore che gli è dovuto, di riconoscere lui solo e di seguirlo. Questo è il vincolo di pietà che a lui ci stringe e a lui ci lega, e dal quale deriva il nome stesso di religione»[5]. Ed il nostro predecessore di i. m. Leone XIII così si esprime: «Questa libertà vera e degna dei figli di Dio, che mantiene alta la dignità dell’uomo, è più forte di qualunque violenza ed ingiuria, e la Chiesa la reclamò e l’ebbe carissima ognora. Siffatta libertà rivendicarono con intrepida costanza gli apostoli, la sancirono con gli scritti gli apologisti, la consacrarono gran numero di martiri col proprio sangue»[6].

Giovanni XXIII, Pacem in terris 8

Proprio stamattina mi contrapponevano Asia Bibi a Silvia Romano: sottoposta a una prigionia più lunga e più dura (anche solo per il fatto che il rischio di morte era esplicito e dichiarato), la prima ha conservato e consolidato la fede, laddove la seconda, che pure era attiva in movimenti ecclesiali, avrebbe “fatto apostasia”. In realtà, la contrapposizione tra lapsi (cioè coloro che in condizioni di non-libertà rinnegavano la fede) e martiri/confessori (quelli che restavano saldi nella fede anche rischiando la morte) è tanto sballata ecclesiologicamente quanto falsa storicamente: proprio la disputa sui lapsi nel III secolo, infatti, trovò una svolta decisiva nel fatto che, lungi dallo stigmatizzarli, generalmente i confessori intercedevano per la reintegrazione dei lapsi!

Appunto perché la Chiesa ha sempre riconosciuto nella saldezza della fede una grazia celeste (certamente accolta e custodita), essa ha profuso tanta venerazione nel culto dei martiri – resi omologhi al Crocifisso stesso! – quanta indulgenza nella considerazione dei lapsi, e anzi erano i confessori a prendersi cura dei fratelli e delle sorelle più deboli. Così come il padre della parabola lucana si sarebbe aspettato dal figlio maggiore – e, come si vede, almeno nei santi è dato di constatare come l’investimento di Dio sull’umanità non sia stato un fallimento.

Militare, custodire, condividere, sperare

A te conviene la giustizia, o Signore,
a noi la vergogna sul volto,
come avviene ancor oggi […] per tutto Israele, […]
in tutti i paesi dove tu li hai dispersi
per i misfatti che hanno commesso contro di te.

Dan 9,7

Silvia resta oggi, come ieri, una sorella e una figlia che «era perduta ed è stata ritrovata». Certamente che sia stata rapita cristiana e ritrovata musulmana può indurre un legittimo sentimento di apprensione, tra cristiani, e anche di tristezza. Su tale sentimento però s’impone il severo vaglio di un onesto discernimento: ci dispiace per lei, che forse era più vicina alla verità di quanto sia adesso, oppure per noi (perché, come diceva il memorabile frate interpretato da Sordi in Nell’anno del Signore, «più sêmo e più vor di’ che c’avêmo raggione noi»)? Penso sia necessaria un’incessante purificazione di questa intenzione, perché tutti sempre tendiamo a confondere la Chiesa militante con la Chiesa gloriosa, illudendoci che quanto più ci copriamo di gloria («ricevendo gloria gli uni dagli altri» – cf. Gv 5,44) tanto più staremmo militando – e di “gloria” e di “milizia” ci riempiamo la bocca con pose marziali.

La verità, invece, è che gloriosa è la Chiesa che già «vede faccia a faccia [la Verità] [e] conosce perfettamente, così com’è conosciuta» (cf. 1Cor 13,12), mentre militante è la Chiesa che, insieme coi suoi Apostoli «vede in modo confuso, come in uno specchio, cioè in modo imperfetto» (cf. ibid.): militare significa sostenerci nella fatica di sopportare questa radicale imperfezione, nella cura del custodire e condividere accanto alla Grande Testimonianza della Rivelazione le piccole scintille di Luce che ce la rendono credibile nelle nostre vite.

Sono passati ormai più di quindici anni da quando, studiando filosofia in Cattolica, vidi un amico (che veniva con me tutti i giorni a pregare la Liturgia delle Ore in Sant’Ambrogio e che pensò di farsi carmelitano) decidere improvvisamente di diventare musulmano. Sarebbe inesatto (oltre che ovvio) dire che io non abbia “condiviso” la sua scelta: la realtà è che non sono neanche mai riuscito a capirla. E che c’è di notevole, in tutto questo? Siamo così limitati, nella nostra comprensione… – ce l’ha confidato anche san Paolo, e proprio parlando delle poche cose che restano veramente! –: al mio amico penso con immutato affetto, e anzi con accresciuta stima per il suo coraggio di seguire rettamente il lume della propria coscienza (come io cerco di fare con la mia); prego Cristo di non permettere che io mi separi da Lui e di raccoglierci ancora, per le vie a Lui note (e magari già da questa vita), attorno a Sé.

Nient’altro penso che un cattolico possa sperare e desiderare oggi per Silvia/Aisha Romano.