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Le certezze di Dio non sono formule matematiche ma la sua presenza accanto a noi

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Di Olesia Bilkei- Shutterstock

don Luigi Maria Epicoco - pubblicato il 05/05/20

Esigiamo da Gesù delle parole che siano come chiare e inappellabili come sentenze, invece l'unica vera certezza che fa calare ogni ansia è sentirsi nelle sue mani.

Ricorreva in quei giorni a Gerusalemme la festa della Dedicazione. Era d’inverno.
Gesù passeggiava nel tempio, sotto il portico di Salomone.
Allora i Giudei gli si fecero attorno e gli dicevano: «Fino a quando terrai l’animo nostro sospeso? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente».
Gesù rispose loro: «Ve l’ho detto e non credete; le opere che io compio nel nome del Padre mio, queste mi danno testimonianza;
ma voi non credete, perché non siete mie pecore.
Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono.
Io do loro la vita eterna e non andranno mai perdute e nessuno le rapirà dalla mia mano.
Il Padre mio che me le ha date è più grande di tutti e nessuno può rapirle dalla mano del Padre mio.
Io e il Padre siamo una cosa sola». (Gv 10,22-30)

Molte provocazioni emergono dalla pagina del Vangelo di oggi. Innanzitutto la domanda esplicita con cui i Giudei si approcciano a Gesù: «Fino a quando terrai l’animo nostro sospeso? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente». In fondo questa può sembrare davvero una domanda legittima. Tutti abbiamo legittimamente il desiderio di avere certezze incontrovertibili su cui fondare la nostra vita. Ma dietro questo legittimo desiderio c’è la tentazione di non accettare che le uniche certezze su cui fondare la nostra vita non devono vertere sulla chiarezza delle parole, ma sull’evidenza dei fatti: “Gesù rispose loro: «Ve l’ho detto e non credete; le opere che io compio nel nome del Padre mio, queste mi danno testimonianza; ma voi non credete, perché non siete mie pecore. Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono”. Coloro che cercano formule chiare molto spesso non sono disposti a discernere nei fatti ciò che conta. Al contrario un cristiano lo è soprattutto per il desiderio di rintracciare nei fatti, nelle opere, quello che Dio sta facendo e sta dicendo. Ma per capire le opere bisogna innanzitutto accoglierle, viverle, domandarsi, discernere. Pare che sia diffusa una certa allergia a questo tipo di fatica. In questo senso però la fede cristiana deve poter educare a questa differenza. Avere chiaro il catechismo e non saper leggere i segni dei tempi fa di noi dei “primi della classe” ma non dei discepoli. Questi ultimi lo sono perché sono entrati in un’intimità tale con Cristo che realizzano pienamente quello che Gesù aggiunge a ciò che ha già detto: “Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno mai perdute e nessuno le rapirà dalla mia mano. Il Padre mio che me le ha date è più grande di tutti e nessuno può rapirle dalla mano del Padre mio. Io e il Padre siamo una cosa sola»”. Sentirsi nelle mani di Cristo fa calare in noi anche l’ansia di voler avere certezze alla maniera del mondo perché per noi l’unica certezza che conta è Qualcuno non qualcosa.

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