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Covid-19: nella lettera a Diogneto il modello da seguire per i cristiani

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Antoine Mekary | ALETEIA

Gerardo Lombardo - pubblicato il 25/04/20

È consuetudine dei giorni nostri vedere alla ribalta della cronaca notizie che riguardano la presenza dei fedeli nelle celebrazioni eucaristiche in tempo di pandemia.

Quello che subito colpisce, è la diversità di pensiero tra i cristiani stessi, che vede alcuni essere contrari alle normative vigenti, che permettono dunque la celebrazione delle sante messe, senza la presenza dei fedeli, mentre altri invece seppur con dispiacere accettano la condizione di essere temporaneamente privati dei sacramenti della vita cristiana.

La cronaca nazionale ci riporta diversi episodi sul territorio in cui l’intervento dell’autorità ha di fatto interrotto preghiere e funzioni religiose laddove qualcuno, approfittando della possibilità di lasciare le porte delle chiese aperte per la preghiera personale, è entrato ed ha partecipato alla sacra liturgia.




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Anzitutto sembra di essere di fronte ad un paradosso: viene da chiedersi per quale motivo un parroco celebra la funzione lasciando aperte le porte della chiesa se è chiamato a celebrare senza popolo? E quindi più nello specifico, un parroco deve celebrare assolutamente solo?

Entriamo maggiormente nel dettaglio, e lo facciamo carta alla mano con il chiarimento del Ministero dell’Interno a riguardo dell’istanza presentata dalla C.E.I

“(…) Innanzitutto, appare opportuno sottolineare che, salvo eventuale autonoma diversa decisione dell’autorità ecclesiastica, non è prevista la chiusura delle chiese. È evidente quindi che l’apertura delle chiese non può precludere alla preghiera dei fedeli, purché evidentemente con modalità tali da assicurare adeguate forme di prevenzione da eventuali contagi: l’accesso, conformemente alla normativa vigente, deve essere consentito solo ad un numero limitato di fedeli, garantendo le distanze minime tra loro ed evitando qualsiasi forma di assembramento o raggruppamento di persone. Al riguardo, sulla base del parere appositamente richiesto al Dipartimento della pubblica sicurezza, al fine di limitare gli spostamenti dalla propria abitazione, è necessario che l’accesso alla chiesa avvenga solo in occasione di spostamenti determinati da “comprovate esigenze lavorative”, ovvero per “situazioni di necessità” e che la chiesa sia situata lungo il percorso, di modo che, in caso di controllo da parte delle Forze di polizia , possa esibirsi la prescritta autocertificazione o rendere dichiarazione in ordine alla sussistenza di tali specifici motivi. Quanto alle celebrazioni liturgiche, le norme stesse – alla luce della esclusiva ratio di tutela della salute pubblica per cui sono emanate – sono da intendersi nel senso che le celebrazioni medesime non sono in sé vietate, ma possono continuare a svolgersi senza la partecipazione del popolo, proprio per evitare raggruppamenti che potrebbero diventare potenziali occasioni di contagio. Le celebrazioni liturgiche senza il concorso dei fedeli e limitate ai soli celebranti ed agli accoliti necessari per l’officiatura del rito non rientrano nel divieto normativo, in quanto si tratta di attività che coinvolgono un numero ristretto di persone e, attraverso il rispetto delle opportune distanze e cautele, non rappresentano assembramenti o fattispecie di potenziale contagio che possano giustificare un intervento normativo di natura limitativa. (…)

DIPARTIMENTO PER LE LIBERTÀ CIVILI E L’IMMIGRAZIONE – DIREZIONE CENTRALE DEGLI AFFARI DEI CULTI – Roma, 27 marzo 2020

Alla luce di quanto scritto dal Viminale, viene esplicitato che non è prevista la chiusura delle chiese, ma le celebrazioni liturgiche seppur non vietate devono svolgersi senza popolo. C’è dell’altro; si parla di “accoliti necessari per l’officiatura” chiarendo così che il parroco non è totalmente solo, ma avrà attorno a sé i suoi collaboratori più stretti. Questo spiega quindi che a nessun altro è permesso prendere parte alle celebrazioni.

Non si fermano sui social, le proteste di quelli che vedono in queste disposizioni tutta la loro contrarietà, anteponendo all’obbedienza frasi di “trasgressione” estrapolate qua e là dalla vita dei Santi, in situazioni specifiche e che mai nella storia hanno avuto a che fare con il covid-19.

Non è mai facile decontestualizzare un pensiero, e certe forzature rischiano di traviarne il vero significato, tanto più se in forza di un’obbedienza maggiore, il frutto è quello di mettere in pericolo gli altri. La carità non cerca forse più il bene maggiore che quello personale? Dove trovare quindi un modello per i nostri giorni se non in quella chiesa delle origini, che tanto si auspica con nostalgia, che viene vista come la più genuina e più fedele agli insegnamenti del Risorto?

Una delle risposte più antiche ma mai attuale come ora, è certamente “La lettera a Diogneto”, un testo assai carico di suggestione che fa fermare il tempo del lettore, e lo riporta a sentire il profumo di quell’ecclesialità impregnata dalla tradizione apostolica, e dell’ardore dei credenti dei primi tempi, unito al fascino della misteriosità della lettera; infatti resta ignoto l’autore, così come le circostanze della sua compilazione. Il testo, datato secondo gli esperti tra il I° ed il II° sec d.C è arrivato ai nostri giorni quasi “miracolosamente”, rivolgendosi appunto a Diogneto; poco importa se fosse una persona fisica o immaginaria, perché quanto scritto, può benissimo essere riproposto a chiunque voglia conoscere Dio.

Così viene riportato testualmente al capitolo V:

​”I cristiani non si differenziano dagli altri uomini né per territorio, né per il modo di parlare, né per la foggia dei loro vestiti. Infatti non abitano in città particolari, non usano qualche strano linguaggio, e non adottano uno speciale modo di vivere. Questa dottrina che essi seguono non l’hanno inventata loro in seguito a riflessione e ricerca di uomini che amavano le novità, né essi si appoggiano, come certuni, su un sistema filosofico umano. Risiedono poi in città sia greche che barbare, così come capita, e pur seguendo nel modo di vestirsi, nel modo di mangiare e nel resto della vita i costumi del luogo, si propongono una forma di vita meravigliosa e, come tutti hanno ammesso, incredibile. Abitano ognuno nella propria patria, ma come fossero stranieri; rispettano e adempiono tutti i doveri dei cittadini, e si sobbarcano tutti gli oneri come fossero stranieri; ogni regione straniera è la loro patria, eppure ogni patria per essi è terra straniera. Come tutti gli altri uomini si sposano ed hanno figli, ma non ripudiano i loro bambini. Hanno in comune la mensa, ma non il letto. Vivono nella carne, ma non secondo la carne. Vivono sulla terra, ma hanno la loro cittadinanza in cielo. Osservano le leggi stabilite ma con la loro vita, superano le leggi. Amano tutti, e da tutti vengono perseguitati. Anche se non sono conosciuti, vengono condannati; sono condannati a morte, e da essa vengono vivificati. Sono poveri e rendono ricchi molti; sono sprovvisti di tutto, e trovano abbondanza in tutto. Vengono disprezzati e nei disprezzi trovano la loro gloria; sono colpiti nella fama e intanto viene resa testimonianza alla loro giustizia. Sono ingiuriati, e benedicono; sono trattati in modo oltraggioso, e ricambiano con l’onore. Quando fanno dei bene vengono puniti come fossero malfattori; mentre sono puniti gioiscono come se si donasse loro la vita. I Giudei muovono a loro guerra come a gente straniera, e i pagani li perseguitano; ma coloro che li odiano non sanno dire la causa del loro odio.”

Ebbene sì, da che mondo è mondo i cristiani hanno sempre vissuto come abitanti nelle loro nazioni, osservando i loro doveri di cittadini, sapendo al tempo stesso che la loro cittadinanza è in cielo; osservano le leggi vigenti, ma con la loro vita superano le leggi, che non significa trovare appigli legali per fare ciò che si ritiene più giusto, o godere di privilegi rispetto ad altri, ma sapere che anche loro sono chiamati a fare la propria parte, vivendo pienamente la loro umanità che esprimono nella società, pur avendo sempre bene in mente che la loro vita supera e cioè va oltre quella della società civile, perché è Dio che conduce l’intera esistenza.


Don Fabio Rosini, Dieci Parole

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In un libro recente opera di un prete che non ha bisogno di presentazioni, don Fabio Rosini, (dal titolo “L’arte di ricominciare”, edizioni San Paolo) si parla nel II° giorno di “obbedienza alla realtà che è obbedienza alle priorità autentiche”; premesso che questo è uno di quei libri che ritengo debba esserne obbligatoria la lettura per un bene maggiore della persona appunto, don Fabio cita alcuni esempi di cose che sono buone e lecite e che fanno bene, ma che non sono la mia priorità. Volendo usare questa chiave di lettura nei tempi del covid-19 (Don Fabio non me ne voglia!) è più che ovvio che poter partecipare alla messa, ricevere l’eucarestia, confessarsi è una cosa più che buona e lecita, che fa bene alla mia anima e che quindi ne trae beneficio tutta la persona! Ma la priorità quale sarebbe?

La priorità è così ovvia, davanti ai nostri occhi! Ed è quella dell’amore, per sé stessi e per gli altri:

La priorità è che io ho il dovere di non contagiare nessuno nell’eventualità che fossi portatore del virus senza saperlo, e nell’eventualità che fossi sano ho il dovere di non farmi contagiare per non diventare il veicolo di nuove trasmissioni del virus ad altre persone. Per cui se il sacrificio da compiere è l’obbedienza che temporaneamente mi impedisce di andare alla messa, allora davvero come il profeta Samuele disse al Re Saul, siamo chiamati a dire: “Ecco, obbedire è meglio del sacrificio, essere docili è più del grasso degli arieti”.

Che questo tempo possa essere fruttuoso per ognuno di noi, che io possa cambiare la mia prospettiva dalla domanda “perché il covid-19”, alla domanda giusta “cosa vuoi dirmi Signore in questo tempo di covid-19?”.

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