Non recarsi in ospedale non può essere un dogma assoluto. La tempestività di intervento salvavita in caso di infarto è e resta decisiva, anche in tempi di pandemia. Occorre valutare seriamente il rapporto costo-benefici, perché il contagio da coronavirus non è l’unica minaccia da tenere lontana.I medici, i divulgatori scientifici, le pubblicità progresso, gli esperti di primo soccorso: per anni ci hanno educato, e hanno fatto bene, alla necessità di intervenire tempestivamente per salvare la vita di persone colpite da eventi acuti: arresto cardiaco, crisi respiratorie, crisi epilettiche generalizzate, rischio soffocamento, infarto.
Ed è proprio su quest’ultima patologia che si vede già la ricaduta gravemente negativa della pandemia da Covid19, o meglio della paura del contagio. Tale timore, ragionevole in sè stesso, ha inciso però tragicamente sui tempi medi con i quali i pazienti si presentano in ospedale: la presa in carico immediata e tempestiva ai primi segnali di infarto miocardico in corso è infatti un discrimine decisivo tra la vita e la morte, o almeno tra una ripresa positiva e strascichi importanti.
Così riportava l‘ANSA un giorno fa:
Dall’inizio dell’emergenza Covid-19 la mortalità per infarto acuto è quasi triplicata e sono diminuite del 40% le procedure salvavita di cardiologia interventistica perché la gente evita gli ospedali: se la tendenza dovesse persistere, la mortalità per infarto supererà di gran lunga quella direttamente associata alla pandemia. Sono dati di uno studio sull’esperienza clinica del Centro Cardiologico Monzino in epoca coronavirus, che conferma integralmente quelli internazionali, come sottolineano gli autori Giancarlo Marenzi, responsabile della Unità di Terapia Intensiva Cardiologica, Antonio Bartorelli, responsabile della Cardiologia Interventistica, e Nicola Cosentino dello staff dell’Unità di Terapia intensiva cardiologica. “Dall’ inizio dell’epidemia Covid – commenta Marenzi – i pazienti arrivano in ospedale in condizioni sempre più gravi, spesso già con complicanze aritmiche o funzionali, che rendono molto meno efficaci le terapie”.
In questa paura diffusa e indifferenziata i media possono fare la loro parte, anzi devono. La sanità non è ovunque e del tutto fagocitata dall’emergenza Covid19 e fin da subito si è attrezzata per tenere distinti i percorsi tra pazienti Covid+ e Covid-.
La morte non arriva solo in dote a questo virus tanto insidioso, ricordiamocelo.
Inoltre, conviene tenere presente che, se per quanto riguardo la sindrome da CovSars2 le donne risultano maggiormente resistenti e meno suscettibili a forme fatali, per quanto riguarda malattie cardiovascolari, noi siamo invece più a rischio, soprattutto dopo i 50 anni.
Una donna su due è a rischio infarto dopo i 50 anni, o quanto meno a rischio di malattie cardiovascolari che, per le signore over 50, rappresentano la prima causa di mortalità (nel 55% dei casi contro il 43% degli uomini secondo una stima dell’Osservatorio Nazionale salute della donna). (Corriere Salute)
Proseguono gli autori dello studio succitato:
(queste terapie) da molti anni hanno dimostrato di essere salvavita nell’infarto come l’angioplastica coronarica primaria. Il perché risulta molto chiaro in tutti i Paesi maggiormente colpiti dalla pandemia: il virus, che non sembra avere un ruolo primario nell’infarto, spinge la gente a rimandare l’accesso all’ospedale per paura del contagio. (Ansa)
Per questo
Il Monzino, insieme ad altri ospedali e società scientifiche italiane e internazionali, dopo aver osservato il calo degli accessi al Pronto Soccorso, ha già lanciato, settimane fa, un appello a non rimandare le cure. Ora i dati di mortalità legata a questo calo ci danno ragione, e ci sollecitano a ripetere con più forza: per evitare il virus non dobbiamo rischiare di morire di infarto. (Ibidem)