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Medici che danno la Comunione ai pazienti? Un’esegesi dell’Eucaristia

RIO

CARL DE SOUZA | AFP

Giovanni Marcotullio - pubblicato il 16/04/20

Dottori che dànno la comunione e infermieri che crollano addormentati sul lavoro sono in queste settimane l'icona dell'Italia migliore – quella di cui tutti ci vantiamo e in cui a tutti piace identificarci. Non si tratta però di mero sentimentalismo: da Prato alle puntate di Doc, passando per i Santi Cosma e Damiano, è ben più forte, il mistero buono e grande che ci attira.

Ho pianto assieme ai pazienti. Gli ospedali sono luoghi di cura, ma non possiamo pensare di separare il corpo dallo spirito: mi rendo conto che nella lotta al coronavirus il nostro sforzo è troppo indirizzato a combattere i mali fisici dei pazienti. Sono state le parole di papa Francesco a spronarci: quando ha detto che i sanitari avrebbero dovuto svolgere il ruolo di intermediari della Chiesa per le persone sofferenti abbiamo preso la decisione di proporci per distribuire la Comunione a Pasqua. Siamo gli unici che potevano farlo, dato che solo noi possiamo entrare in quelle stanze.

Queste parole del dott. Filippo Risaliti, pubblicate ieri da Avvenire, stanno circolando e facendo parlare di sé ben oltre i confini nazionali. L’iniziativa di medici che nella domenica di Pasqua hanno distribuito la Comunione ai malati di Covid-19 è stata dunque ispirata dal massimo vertice visibile della Chiesa cattolica e correttamente disposta dall’Ordinario del Luogo, mons. Giovanni Nerbini. A far da mediatore e da guida il cappellano, secondo le parole del dott. Lorenzo Guarducci:

È stata una proposta nata in modo spontaneo e condivisa immediatamente con il cappellano ospedaliero don Carlo che ci ha preparati a vivere questo momento.

Raggiungere i malati, per quanto possibile

Ha toccato molto, nel racconto del medico, il particolare momento della comunione distribuita a madre e figlio ricoverati insieme per Coronavirus:

Al di là dell’aspetto confessionale in questo momento di difficoltà i medici percepiscono la condizione di isolamento dei pazienti dagli affetti e dai parenti. Sono persone sole, sofferenti, non solo nel fisico ma anche nell’anima. Vivono una situazione di distanza umana.

L’iniziativa (che facilmente susciterà emulazioni altrove) getta una luce particolare sulla condizione dei malati, ma se ci limitassimo a questo livello di lettura rischieremmo di trasformare l’episodio in un’acrobazia sanitaria per fare in relativa sicurezza qualcosa che ordinariamente riteniamo molto difficile: l’acrobazia in questione del resto sarebbe comunque destinata a restare almeno in parte frustrata, perché i pazienti affetti da manifestazioni più severe del morbo (e dunque “più bisognosi” del Pane di Vita?) sono intubati e sedati – due condizioni accidentali che sono altrettanti impedimenti alla comunione sacramentale.

Conformazione dei medici a Cristo

Mentre leggevo la notizia ho immaginato la reazione di certe frange oltranziste che probabilmente avranno ritenuto sconsiderata e sacrilega la Comunione «data da mani non consacrate»: uno degli effetti della pandemia, però, è stato senza dubbio l’aumento della segregazione di medici e infermieri, i quali in certi casi non tornano alle loro famiglie da parecchie settimane ormai. E mi tornano in mente le disposizioni degli Ortodossi per i loro sacerdoti uxorati, ai quali non è consentito avere rapporti con la moglie il giorno prima dell’offerta dell’Eucaristia (uno dei motivi per cui i preti non celibi non celebrano messa tutti i giorni): normalmente di questa disciplina si dà una lettura sessuofobica (entusiasta o acrimoniosa, a seconda che provenga da clericali o da anticlericali); le parole del dott. Guarducci, però, mi hanno rimandato a una lettura spirituale più profonda – quella che poi sta alla base dello stesso uso ortodosso, correttamente inteso.

Dare la comunione ai malati per me ha significato colmare questo vuoto, questo gesto mi ha fatto ricongiungere anche con i miei attraverso il Signore. È stata una delle esperienze più belle che ho vissuto nel corso della mia vita di uomo, di cristiano e di medico.

Il ministro dell’Eucaristia dev’essere santo, cioè (lo si ritrova sia nell’etimologia latina sia in quella ebraica) “messo a parte”: non per costituire una casta, bensì per sostenere lo sforzo di un servizio enorme. Il Signore esige dai suoi ministri un vuoto, una mancanza che egli solo – direttamente e/o mediante consolazioni create – può e vuole colmare. Mi sembra che il dottor Guarducci lo abbia attestato sapientemente, e di questi preziosi momenti ecclesiali dovrà oculatamente nutrirsi la riflessione teologica inerente al ministero straordinario dell’eucaristia e all’accolitato – non perché siano realtà più o meno esclusive (la solita linea di scontro fra clericali e anticlericali), bensì perché crescano entrambe in radicalità. Certo, Cristo non disdegna di passare per le mani dei peccatori per propagarsi nel popolo che si è acquistato con la Croce, ma a questi suoi amici particolari s’impone una misteriosa e più stretta partecipazione alla sua passione.

Un’unica grande Passione

Perché “passione” non viene solo da patire e non rimanda unicamente a “paziente” – o scadremmo nel dolorismo – ma significa pure (e soprattutto) amore, rimandando al medico. Nella XVI visita al Santissimo Sacramento il grande Vescovo Alfonso lo ricordava così:

Oh se gli uomini ricorressero sempre al SS. Sacramento a cercar rimedio de’ loro mali, certo che non sarebbero così miserabili come sono! Piangeva Isaia: Numquid resina — o come volta il Caldeo: Numquid balsamum — non est in Galaad; aut medicus non est ibi? (Ierem. VIII, 22). Galaad monte dell’Arabia, ricco di unguenti aromatici, come nota Beda, è figura di Gesù Cristo che tiene apparecchiati in questo Sacramento tutti i rimedi per i nostri mali. Perché dunque, par che dica il Redentore, vi lagnate, o figli di Adamo, de’ vostri mali, quando voi avete in questo Sacramento il medico e ‘l rimedio d’ogni vostro male? Venite ad me omnes… et ego reficiam vos. Voglio dunque dirvi colle sorelle di Lazaro: Ecce quem amas infirmatur. Signore, io son quel miserabile che voi amate, tengo l’anima così impiagata per gli peccati fatti; medico mio divino, vengo a voi acciocché mi saniate; voi potete e volete guarirmi: Sana animam meam, quia peccavi tibi.

I medici che come il dottor Guarducci hanno fatto, fanno e faranno l’esperienza di amministrare straordinariamente la Comunione eucaristica ritrovano nel limite del proprio potere terapeutico (sempre possono curare, non sempre guarire – e l’efficientismo tecnicistico del nostro tempo mal tollera la distinzione) il fondamento stesso della loro missione, la sua sensatezza ultima. «Perché dedicarsi a lenire le miserie umane?» – Perché c’è misericordia, ovvero perché non è dato un modo più sano e bello di stare al mondo che facendoci compagnia e amandoci gli uni gli altri «fino alla fine», ossia come il Cristo per primo ci ha amati.

Malattia e cura: due vie per la ricerca di un Senso

Non sarà un caso che anche in un’ora in cui la televisione è più compulsata del solito, dagli italiani, la serie Doc (Nelle tue mani) abbia fatto registrare livelli di ascolto e di gradimento da record (nettamente al di sopra di prodotti ultrapompati come L’amica geniale): certamente piace l’interpretazione di Argentero, Scifoni e di tutto l’ottimo cast, ma soprattutto avvince la storia vera di Pierdante Piccioni, che attraverso un enorme vuoto e con epica determinazione giunge a ricostruire la propria vita. «Devo ringraziare le migliori medicine – ha detto proprio il vero “Doc” durante una testimonianza –, che sono la fede, la fortuna, la mia famiglia e i miei amici».

«Questa crisi ci sta facendo ricordare – aveva detto settimane fa Massimo Gandolfini, altro noto medico italiano – a che cosa serve la medicina», perché avere cura gli uni degli altri è una disposizione che tutti insieme imploriamo ed esigiamo gli uni dagli altri, giungendo a imporcelo fin con misure drastiche.

La medicina non è sempre stata quella che conosciamo: nell’antichità i medici curavano chi poteva pagare (e comunque già escludevano di poter uccidere chicchessia, men che meno i non nati), ma gli ospedali non sarebbero esistiti prima che la storia di Cristo si proiettasse maestosa sul mondo (e non a caso i nosocomi – il sinonimo bizantino di “ospedale” viene dal greco ecclesiastico – si tennero strette le cappelle anche quando smisero di sorgere accanto a cattedrali e chiese).

Curare è una vocazione sublime, ma pure il sublime invoca una ragione a sostegno di sé. Leggo, guardo, osservo queste storie e ripenso a quanto lungamente l’umile opera benefica degli antichi Cosma e Damiano si sarebbe prolungata nel tempo: era il 1540 quando Alessandro Bonvicino, detto “il Moretto”, dipinse per una chiesa di Marmentino (nel Bresciano) la pala d’altare che giustapponeva al santo mistero dell’altare proprio i Santi Medici. Perché no: la dottrina eucaristica cattolica non viene “dalla controriforma” (il Concilio Tridentino sarebbe cominciato cinque anni dopo) né da una strategia di marketing – è come ci è dato di custodire il Farmaco dell’Immortalità. 

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Cristo Eucaristico con i santi Cosma e Damiano, Marmentino 1540

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