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Il mestiere di infermiere nacque davvero come una vocazione

NURSE, HOSPITAL, PATIENT

Syda Productions | Shutterstock

Una penna spuntata - pubblicato il 14/04/20

"Alcuni malati gridano, altri tremano, altri delirano. Ma gli infermieri sopportano tutto e servono con pietà e pazienza", lo si legge su un testo italiano del 1510: già allora la scelta di lavorare in ospedale era sentita come una chiamata personale.

Conosco alcuni operatori sanitari che dicono di essersi anche un po’ stufati di questa retorica del “medico eroe”. I miei amici preferirebbero essere considerati un po’ meno “eroi” e un po’ più “professionisti che vengono pagati per svolgere un lavoro pericoloso e sgradevole” – così magari li mettiamo nelle condizioni di poter lavorare bene, invece di mandarli al martirio perché tanto lo fanno per vocazione.

Un’obiezione ragionevole, oserei dire. Quindi non mi dilungherò nello scrivere quanto eroismo e abnegazione siano insiti nella scelta di fare il medico o l’infermiere oggi. Da brava storica, vi parlerò semmai del modo in cui è nata la professione di infermiere. Perché, sì: è nata, letteralmente, come una vocazione.

Si dice spesso che sia stata Florence Nightingale a dare una professionalità agli infermieri.
C’è del vero in questa affermazione. Fino all’età vittoriana, quello di infermiere era un ruolo poco stimato – e non tanto perché non esistessero professionisti capaci (come vedremo, venivano spesso affidati agli infermieri ruoli che adesso sono appannaggio dei medici). Più che altro, il termine “infermiere” poteva indifferentemente descrivere una vasta categoria di ruoli che, ai giorni nostri, spazierebbero probabilmente dal “caporeparto” al “cuoco del servizio mensa”, dal “OSS” al “servizio di pulizia”.
E tutto ciò, a causa di una situazione particolarissima venutasi a creare nel corso dei secoli – là dove la decisione di fare l’infermiere si era affermata non tanto come scelta professionale, quanto più come vocazione religiosa. Pura e semplice.

Se volete scoprire di tutto e di più sulla medicina rinascimentale, date un’occhiata al poderoso L’ospedale rinascimentale di John Henderson, edito da Odoya. Non lasciatevi ingannare però dal nome dell’autore: lo studioso è inglese e lavora presso l’Università di Londra, ma il suo ambito di ricerca è la Storia del Rinascimento italiano – sicché, il suo libro è dedicato principalmente alla storia degli ospedali in Italia e a Firenze in particolar modo.

Ebbene: in Italia (ma, genericamente, nella maggior parte degli Stati Europei) la categoria professionale degli infermieri nasce nel momento in cui alcuni individui sentono di essere chiamati ad abbandonare la loro vecchia vita per prestare servizio, quasi sempre gratuito, presso l’ospedale cittadino.

Gli infermieri quasi sempre domandavano (e ottenevano) di poter vivere all’interno dell’ospedale per cui lavoravano, quasi fossero religiosi residenti in un monastero. Alcuni decidevano addirittura di portare in dote all’ospedale le loro ricchezze (!) prima di trasferirsi e prendere servizio. Mi prenderete per scema, ma esistevano persino degli individui che – dopo una sostanziosa offerta all’ospedale – vi si trasferivano, singolarmente e in coppia, ma senza alcun obbligo di prestare servizio assistenziale. Lo facevano solo se avevano voglia, liberamente, senza impegni, scegliendo in prima persona le attività cui dedicarsi.

“Chi è il folle che decide di andare a vivere dentro un ospedale come scelta di vita?”, mi direte.
E io vi risponderò: è uno che spera di essere “tenuto” dall’ospedale anche quando, col passar degli anni, sarà lui ad avere bisogno di assistenza.

I contratti sopravvissuti tra ospedali infermieri suggeriscono che la distinzione tra paziente, infermiere e ospite residente fosse decisamente molto labile, all’aprirsi dell’età moderna. Il 9 agosto 1517, ad esempio, l’ospedale fiorentino di San Matteo accetta come infermiere un certo Bartolomeo di Bastiano di Michele, e precisa:

Perché il detto Bartholomeo non è molto sano noi ci siamo convenuti seco che lui s’abbi exercitare intorno agli infermi in quel modo che lui sapeva e potrà, con questo inteso che lui non sia tenuto a fare la ghuardia agli infermi la notte perché, come è detto, non è molto sano […] conosciamo che lui  è venuto qui per vivere e morire e salvare l’anima sua ad essere amorevole degli infermi e de’ sani […] e avrebbe gran desiderio di guarire interamente per potersi exercitare il dì e la notte a fare ancora la guardia intorno agli infermi.

Verrebbe da dire che Bartolomeo aveva trovato una buona sistemazione, godendo addirittura della possibilità di decidere quali attività svolgere e quali no. Il che è pur vero – ma non pensiate che il nostro amico fosse un fannullone pronto a far la bella vita. Concretamente, per poter ambire a un posto da infermiere, il candidato doveva esser pronto a sottostare a regole assai rigide.

La più invalidante toccava direttamente la sfera personale: il futuro infermiere doveva garantire di essere pronto a dedicarsi interamente al servizio ospedaliero, senza alcun tipo di distrazioni esterne. Il che voleva dire rinunciare al matrimonio, così come alla vita in seno a un ordine religioso. (Rare) eccezioni potevano essere fatte solo per le coppie già sposate che avessero deciso assieme di abbracciare questa vocazione, o qualora un gruppo di infermieri già costituito avesse avvertito il desiderio di fondare ex novo una famiglia religiosa dedita alla cura dei malati. Accadde, ad esempio, nel 1516 per le infermiere che lavoravano presso l’ospedale San Paolo di Firenze.

Secondariamente, gli infermieri erano tenuti ad abbracciare una regola di vita che era molto più elastica rispetto a quella dei religiosi… ma molto più rigida rispetto a quella dei laici. Era obbligatoria per loro una confessione frequente, così come era obbligatorio assistere quotidianamente alla Messa che veniva recitata, più volte al giorno, presso la cappella dell’ospedale. Inoltre, a differenza dei colleghi maschi, che godevano di maggiori libertà, le infermiere di sesso femminile facevano – di fatto – una vita di clausura, vivendo all’interno di un ospedale dal quale uscivano assai raramente.

Con questi presupposti, non stupisce che il nostro amico Bartolomeo avesse ritenuto di poter “salvare l’anima sua” adottando questo stile di vita. In fin dei conti, gli infermieri si impegnavano in una esistenza di preghiera nella quale, per di più, era quotidiana la pratica delle opere di misericordia. Non male, come strada da percorrere per assicurarsi la salvezza eterna! Non male… tanto più che l’ospedale garantiva al personale assistenza sanitaria in caso di bisogno e, al momento dell’ultimo commiato, si impegnava a fornire gratuitamente ad ogni infermiere un funerale decoroso, una sepoltura nel cimitero dell’istituto e diversi cicli di Messe in suffragio. Insomma: non male. Niente affatto male.

Con questi presupposti, non vi stupirà sapere che era ammantata di una religiosità profonda anche la cerimonia di investitura durante la quale l’infermiere prendeva servizio. Il tutto si svolgeva nella cappella dell’ospedale (!), dove l’aspirante infermiere era accolto dal rettore della struttura. Costui avvolgeva l’infermiere nella tovaglia d’altare; dopodiché, stringendogli le mani, accettava solennemente nel nome di Dio l’offerta che l’infermiere faceva della sua persona (…e di eventuali beni materiali che avesse deciso di portare in dote).

A quel punto, l’infermiere giurava obbedienza ai suoi superiori e si impegnava di fronte a Dio a servire con devozione tutti i malati dell’ospedale. Dopodiché, si cambiava d’abito (sembra davvero di essere di fronte a una cerimonia di vestizione religiosa!), indossando quella che, da quel momento in poi, sarebbe divenuta la sua nuova divisa. Una divisa molto semplice, quasi monacale: la lastra tombale di Monna Tessa, che fu infermiera a Firenze presso l’ospedale di Santa Maria Nuova, ce la mostra vestita come una vera e propria monaca, con un cappuccio a coprire i capelli e una sopravveste adagiata su una semplicissima tunica. Non pensiate che siano suore le donne velate che, nei dipinti medievali, vedete affaticarsi attorno ai malati: in molti casi, sono – banalmente – infermiere. Donne laiche al 100%, a patto che si possa davvero definire “laicale” una scelta di vita così radicale.

Ok, mi direte: ma, concretamente, cosa facevano ‘ste benedette infermiere, a parte pregare, vestirsi da suora e viver da reclusa?

Innanzi tutto: lavoravano gratis. Molto raramente, e solo in casi eccezionali, esisteva personale infermieristico che veniva pagato per i suoi servigi. Nella maggior parte dei casi, l’ospedale si avvaleva di questa forza-lavoro numerosa e volontaria, organizzata in questa maniera: ogni reparto aveva un infirmario (o prioressa, se di sesso femminile) che oggi definiremmo, probabilmente, “il caposala”.
Ogni infirmario era assistito da quattro vice, scelti tra gli infermieri con maggiore esperienza. Ogni vice aveva ai propri ordini sette assistenti, per un totale di circa trenta infermieri assegnati ad ogni reparto, col compito di coadiuvare il personale medico.

Era un aiuto decisamente molto attivo – sospetto, ancor più attivo di quello degli infermieri d’oggi. L’infirmario, ad esempio, aveva la grande responsabilità di fare una prima visita ai malati e di individuarne la malattia almeno per sommi capi. Questa prima diagnosi gli avrebbe permesso di stabilire il trattamento iniziale da riservare agli infermi, prima di una visita più accurata da parte dei medici chirurghi, sempre oberati di lavoro e, dunque, non sempre reperibili in breve tempo.

Gli altri infermieri che lavoravano in reparto avevano un ruolo non meno importante. Ad esempio, avevano il compito di somministrare i farmaci (talvolta, provvedendo a dosarli secondo le indicazioni che venivano fornite loro). Talvolta, svolgevano anche sui malati piccoli interventi di routine. In diverse zone d’Europa (ma, curiosamente, non in Italia, dove le donne incinte non erano ammesse in ospedale) potevano svolgere il ruolo di levatrice qualora ce ne fosse stato bisogno.

Capite bene come sia storicamente inaccurata la vulgata per cui “fino all’Ottocento, gli infermieri non erano stimati come professionisti”.
Evidentemente, un individuo ritenuto in grado di somministrare farmaci, effettuare un triage ed impostare una terapia è decisamente un professionista stimato. Il “problema” della categoria professionale nel complesso derivava dal fatto che erano definiti “infermieri” anche gli individui che – non volendo o non potendo occuparsi direttamente dei malati – svolgevano una vasta serie di altre attività a sostegno dell’ospedale.
Tipo: preparare i pasti; custodire gli effetti personali dei ricoverati; coltivare le erbe officinali che sarebbero state usate per la preparazione dei farmaci; pulire i locale; lavare la biancheria e rifare i letti dei degenti.

Mettiamola così: ci volle del tempo per far passare il concetto che la signora che rifà i letti agli ammalati svolge un servizio sicuramente importantissimo, ma non è una infermiera. Ci volle del tempo anche per far passare il concetto che se tu ambisci a fare l’infermiera, e non a rifare i letti agli ammalati, allora sarà probabilmente utile che tu riceva una formazione specifica, appositamente studiata per il ruolo che intendi ricoprire.

Sì: per far passare questi concetti, ci volle in effetti un bel po’ di tempo.
Per far passare alla popolazione il concetto per cui gli infermieri sono perle preziose, ci volle decisamente meno fatica. E infatti, così ad esempio descrivevano il lavoro dell’infermiere gli Ordinamenti dell’ospedale fiorentino di Santa Maria Nuova, nel 1510:

Le nostre infermiere fanno a turno nell’ospedale come sopra descritto, correndo da un malato all’altro quando questi chiamano. Ad alcuni portano acqua calda, ad altri una tisana o un infuso d’orzo, ad altri una giulebbe o una bevanda dolce. Alcuni devono sorreggerli, altri portarli, altri ancora tenerli fermi, e ad altri portare padelle. Alcuni malati gridano, altri tremano, altri delirano. Ma gli infermieri sopportano tutto e servono con pietà e pazienza.

QUI IL LINK ALL’ARTICOLO ORIGINALE PUBBLICATO DA UNA PENNA SPUNTATA


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