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Bioetica per tutti, bioetica per tutto, ma come orientarsi?

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Rubbettino

Rachele Sagramoso - La Croce - Quotidiano - pubblicato il 07/04/20

Una giovane docente ha recentemente pubblicato un manuale di successo. Intervista a Giorgia Brambilla.

Giovane ricercatrice e docente universitaria, ma prima ancora madre e moglie, e ancora prima ostetrica. La parabola biografico-accademica di Giorgia Brambilla culmina (per il momento) con la pubblicazione di un manuale di successo con un editore in vista: l’abbiamo intervistata per apprenderne i contenuti in presa diretta.

Ci può spiegare da dove deriva la Bioetica, disciplina oggetto del suo Manuale e di cui si sente tanto parlare?

Fu l’ambito della sperimentazione a far emergere il pensiero di dover porre dei limiti alla ricerca, o perlomeno la riflessione sui potenziali rischi per l’essere umano legati a un suo utilizzo sbagliato, prima ancora di chiamare tale questione “Bioetica”. Sono senz’altro da rilevare nel sentire comune i crimini nazisti e il codice di Norimberga e si pensi anche alla Dichiarazione di Helsinki sulla sperimentazione. Inoltre, sempre relativamente alla sperimentazione, proprio a ridosso dell’idea di Potter – l’inventore del neologismo “Bioethics” – sono da ricordare due fatti: il primo del 1963, quando al Jewish Chronic Desease Hospital di Brooklin furono iniettate cellule tumorali in pazienti anziani senza il loro consenso all’interno di una sperimentazione; il secondo, tra il 1965 e il 1971, in cui all’interno degli studi sull’epatite virale inocularono il virus a dei bambini con handicap ricoverati in ospedale.
Questa impellente necessità chiarisce, in realtà, uno dei limiti della Bioetica ai suoi esordi, ovvero la mancanza di sistematicità, che fece sì che la primissima Bioetica anglosassone assumesse un carattere esclusivamente pragmatico-casistico: una sorta di codice di correttezza, privo di fondamento, che per assurdo potrebbe concepire un medico “che fa bene il male”.
La Bioetica cominciò ad acquisire un carattere di sistematicità dalla seconda metà degli anni ’80, sebbene già nel 1978 T.W.Reich scrisse la sua prima definizione di Bioetica nella sua celebre “Encyclopedia”: «lo studio sistematico della condotta umana nell’ambito delle scienze della vita, esaminata alla luce dei valori e dei principi morali»; modificandola, poi, nel 1995 in «studio sistematico delle dimensioni morali delle scienze della vita con l’impiego di diverse metodologie in un contesto interdisciplinare».
Tale definizione arrivò dopo la “fioritura” dei due poli di riferimento: l’Hasting Center, fondato a New York nel 1969, dal filosofo Daniel Callahan e dallo psichiatra William Gaylin, con la preoccupazione di formulare norme nell’ambito della ricerca e della sperimentazione biomedica, e il secondo, il Kennedy Institute of Ethics alla Georgetown University nel 1971, fondato da Andrè Hellegers, uno dei laici coinvolti nel 1964 nella Commissione pontificia di studi su famiglia, popolazione natalità, convocata, tra le altre cose, per riflettere in maniera multidisciplinare sulla pillola di Pincus. Fu proprio Hellegers ad introdurre la Bioetica in ambito universitario, contribuendo così a renderla una disciplina vera e propria, caratterizzata da un sapere multidisciplinare.

E in Italia?

In Italia, la storia della Bioetica è legata ad altri due elementi: lo sviluppo della riflessione nell’ambito della sessualità e il campo della problematica embropoietica e delle relative tecnologie, i cui rischi manipolativi hanno accresciuto il dilagare della Bioetica. Tanto che la stessa Università cattolica da 25 anni aveva concentrato le sue attenzioni a questi temi, in particolare grazie al Centro per la Regolazione Naturale della fertilità, in stretta collaborazione con l’Istituto di Ostetricia e Ginecologia, diretto da Adriano Bompiani, e l’Istituto di Genetica umana, diretto da Angelo Serra. L’Istituto di Bioetica è noto per un modello chiamato “personalismo ontologicamente fondato” che riconosce il valore centrale della persona quale punto di riferimento essenziale per rispondere alle nuove problematiche emerse nel contesto del progresso scientifico tecnologico. Pioniere della Bioetica in Italia fu Elio Sgreccia, a cui nel 1985 venne affidata la direzione del Centro di Bioetica dell’Università cattolica del Sacro Cuore. Il Centro fu pensato e voluto come una struttura pluridisciplinare che si giovava dell’apporto di esperti di varie discipline: filosofi, moralisti, biologi, giuristi, ecc. Si deve tenere conto anche della spinta in tal senso di Pio XII, soprattutto per la coscienza della necessità di avviare una Facoltà cattolica di Medicina a Roma affidata ad Agostino Gemelli.

Visto che la Bioetica è una materia che attualmente viene impartita all’Università: ci descrive il percorso da seguire per studiarla?

Non posso non segnalare il percorso della prima Facoltà di Bioetica al mondo, quella nata nel 2001 presso l’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum – nel quale io mi sono formata e attualmente sono Docente ordinaria. Nella nostra Università, la Bioetica si studia principalmente nel ciclo di Licenza, della durata biennale, che si snoda per quattro semestri, orientati a favorire l’approfondimento e la specializzazione nei diversi temi e ambiti della Bioetica – e nel terzo ciclo, o Dottorato, che è finalizzato al conseguimento del grado accademico di Dottore e consiste nella ricerca approfondita su un tema di Bioetica e nella redazione della tesi dottorale nella quale lo studente offre un apporto personale ed originale alla materia.

Lei, prima di essere Docente di Bioetica, è laureata in Ostetricia: ci racconta il motivo che l’ha spinta a studiare Bioetica dopo un corso di laurea così impegnativo?

Appena si comincia il tirocinio in Ostetricia, in ogni coscienza – pure in quella di una paesanotta in modalità “basic” come me, che di tante cose non sapeva nemmeno l’esistenza – sorge una domanda: com’è che al piano terra i bimbi li si fa nascere e al piano di sopra li si fa morire con l’aborto? La maggior parte delle studentesse passa oltre quella domanda; per me, all’epoca, rimaneva un vero tormento. Finchè alcuni incontri cambiarono le cose. Un ragazzo della Facoltà di Filosofia, conosciuto in parrocchia, mi propose di scrivere un articolo sull’aborto per il giornale universitario, per unire la due prospettive, scientifica e filosofica, su questo delitto. Galeotto fu l’articolo! Non solo perché io e quel “ragazzo” stiamo per festeggiare 13 anni di Matrimonio, ma anche perché mi diede l’opportunità di cominciare ad approfondire. Dopo l’articolo, infatti, fui invitata a frequentare un corso di Bioetica per universitari, tenuto dal prof. Paolo Cattorini; successivamente il Movimento per la vita, conosciuto tramite il ginecologo Giancarlo Bertolotti – per il quale è stato avviato di recente l’iter per la causa di beatificazione, tanta era la sua dedizione per la difesa della vita – mi offrì la possibilità di seguire un corso estivo intensivo organizzato dal Centro di Bioetica di Sgreccia.
Ma ci fu un fatto che più di tutti segnò la mia “vocazione bioetica”: un bimbo nato vivo da un aborto cosiddetto “terapeutico”, nel periodo in cui facevo tirocinio, che portò al dilemma della sua rianimazione in sala parto, visto che non era un figlio “voluto”. Questo divenne il tema della mia tesi di Laurea e aprì la porta al percorso di studi bioetici successivo, scolpendo nel mio cuore le parole che Giovanni Paolo II rivolse ai giovani che come me erano riuniti nella veglia di Tor vergata del 19 Agosto del 2000: «Voi difenderete la vita in ogni momento».

Il Suo manuale “Riscoprire la Bioetica” è scorrevole, chiaro e, soprattutto, didattico: è proprio il manuale che mancava alla formazione di chi inizia a studiare e approfondisce la materia. Per quale motivo Lei ha deciso di redigere un testo così alla portata anche di chi è profano alla materia?

Scrivere libri e fare ricerca fa parte del mio lavoro. Ma questo libro è diverso. Questo nasce come servizio, recuperando il primordiale compito della Bioetica, ovvero la formazione delle coscienze. Ecco il motivo che mi ha spinto ad offrire una formazione di base, soprattutto per chi è in prima linea nell’ambito educativo o nel mondo pro-life; ma anche a chi semplicemente vuole capire più a fondo cosa si cela dietro ai fatti di attualità che toccano la vita umana. La vera sfida della Bioetica, infatti, è educare, che significa aiutare a riconoscere l’oggettività del reale, a partire dall’essere umano che ho davanti a me hic et nunc per ciò che è e non per ciò che ha o sa fare.
Fare Bioetica è imparare a guardare le questioni sotto i vari profili ed imparare, come in un labirinto, a riconoscere i punti nevralgici e la via per elaborare un giudizio etico. Se imparo questo, non importa se sono un insegnante e non un medico perché saprò dire se quella particolare tecnica di fecondazione artificiale si può fare oppure no dalle sue caratteristiche basilari; non importa se sono un medico e non un filosofo perché saprò riconoscere da alcuni elementi chiave che in quel caso clinico si confonde il dato sostanziale della vita umana con quello accidentale del suo presunto “miglior interesse”.

La Bioetica è una materia che, se vogliamo, potrebbe essere impartita, con modalità differenti, in varie fasce della scuola: come far riscoprire il valore della vita ai ragazzi?

È l’inscindibile legame che intercorre tra la persona, la sua vita e la sua corporeità che ci permette di costruire e diffondere una vera e propria cultura della vita, a partire dai più giovani.
Uno sguardo più attento alla nostra società ci mostra un interessante paradosso: la ricerca spasmodica della cura del proprio corpo è accompagnata da un prepotente rifiuto di esso, specie se malato o anche semplicemente “acciaccato”. Non solo. La visione di noi stessi come persone è attraversata da una sottile, ma inequivocabile, visione dualistica che ci strappa da quel “Lieb”, come corpo vissuto. Vediamo costantemente un corpo strumentalizzato dai media per veicolare messaggi erotici, violenti o diseducativi. Siamo bombardati da immagini che meccanicizzano il corpo contribuendo a farci pensare l’uomo nei termini di una specie di “macchina” vivente in cui non c’è niente di “misterioso” e il cui valore dipende direttamente dalle sue finalità.
La sfida educativa si gioca, a mio giudizio, soprattutto sul piano antropologico. I giovani oggi sperimentano uno smarrimento della propria identità e di un valore fondamentale per la persona: la corporeità. Proporre un insegnamento morale ai giovani, ma anche ai bambini, non può che ripartire dalla persona e dal suo corpo, eliminando la frammentarietà e mostrando l’essere umano per ciò che è, ovvero sinolo di corpo e psiche, aiutando loro a riscoprirne la bellezza. La Bioetica ha una forte valenza educativa; ma non può essere proposta come un elenco di “principi”. Deve partire da ciò che l’essere umano è, e questo può essere spiegato a scuola anche ai bambini, tramite semplici unità didattiche di apprendimento che gli insegnanti possono elaborare in modalità interdisciplinari, secondo il metodo tipico della Bioetica.

Lei ha tre figli piccoli e, nonostante questo, è riuscita a portare a termine un Manuale di quasi 500 pagine, oltretutto per un editore di rilievo. Come ha fatto?

Quante volte la gente mi ha guardato sbigottita all’apprendere che la mia età, il numero dei miei figli e il mio ruolo accademico coesistevano serenamente nella stessa persona. Sembra che la presenza dei figli sia qualcosa di terribile e devastante, da rimandare più possibile o comunque da accogliere se non addirittura “incastrare” nel momento “giusto”, quando ci si è fatti “strada” o si è “pronti”.
Indubbiamente, scrivere o studiare senza figli è più facile, perché si dispone di tempo pressoché illimitato. Tuttavia, non è detto che quel tempo sia di maggiore qualità.
Io posso dire che essere mamma mi ha reso negli anni una “prof” migliore e non solo perché dotata ormai di un cervello “iperconnesso”, come rivelano alcuni studi sulla maternità; ma perché è il mio cuore ad essere stato “potenziato”. Sono meno centrata in me stessa e questo mi aiuta a “sintonizzarmi” meglio sui bisogni degli studenti (che, pure se adulti, contano come una vagonata di figli esigenti e indisciplinati!) e su quelli di chi legge i miei articoli o mi segue sui social, ma anche a dare tutta me stessa nella ricerca e nell’insegnamento, con più umiltà e meno perfezionismo.
I sacrifici non sono mancati, ovviamente. Eppure, forse, è stata proprio questa fatica a rendere autentico questo libro. Ogni pagina era un gradino da salire e un’occasione per chiedermi: per chi lo stai facendo? Per te stessa o per la missione che Lui ti chiede? Dopo l’ennesima nottata passata con una mano sul pancino della figlia piccola e l’altra sulla tastiera del computer, la centesima riga scritta in piedi per sfruttare il tempo della fila all’INPS e la seconda bozza di stampa “leopardata” di chiazze d’olio e pittura marrone, la risposta è risultata piuttosto chiara. Sono sempre più convinta che, per noi docenti e scrittori, i figli siano un po’ come i foglietti acchiappacolore della lavatrice: più ne hai e meno il “bucato”, cioè il nostro operato intellettuale, viene macchiato dalla vanità.

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Giorgia Brambilla (ed.), Riscoprire la bioetica, Rubbettino 2019
Fonte: La Croce Quotidiano

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