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Qui a casa mia ogni cena è una guerra punica

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© Nomad_Soul / Shutterstock

Sei di tutto più uno - pubblicato il 06/04/20

La reclusione forzata è una sfida per ogni famiglia, ma non sono le regole astratte di una buona condotta e comunicazione a rinsaldare i legami e impedire gli inevitabili scontri.
In una parentesi piuttosto breve della mia esistenza di madre, ho tentato di percorrere due strade sull’argomento “comunicazione” tra genitori e figli. So che adesso mi tirerò addosso “l’ira funesta” di chi ama molto questo tipo di iniziative “pedagogiche”, ma per me – che sono iraconda e vagamente tendente alla mancanza di pazienza – hanno significato l’assoluta pazzia.
La prima strada è stata la Comunicazione Non Violenta” proposta da Rosenberg, la seconda è quella di Gordon che viene chiamata Genitori Efficaci. Entrambe possiedono spunti interessanti, in teoria, ma nella pratica sono, per persone come me (limitate nella mansuetudine e dotate di poca tolleranza) assolutamente impraticabili.
La “Comunicazione Non Violenta” che punta molto su un modo di intraprendere un dialogo estremamente particolare, mi fa “venir fuori” Jack lo Squartatore in versione cattiva. Non ci posso fare nulla: è un modo artificioso – per me, lo ripeto – di costruire la relazione tra adulti, figuriamoci tra un adulto e un bambino. Certo, può essere utile in talune relazioni (maestra-alunno, ad esempio, oppure medico-paziente), ma nella vita di tutti i giorni, e soprattutto in una famiglia numerosa dove spesso le cene e i pranzi sono una lotta all’ultima coscia di pollo, costruire una frase in modo tutto impostato di modo tale che il fratello che sta per strozzare l’altro fratello, non proceda con l’omicidio ma si rivolga con assoluto e britannico aplomb al consanguineo usando tutta una formula a metà tra il galateo e l’empatico (parlerò più avanti dell’empatia tra bambini), non solo non è possibile, ma durerebbe troppo perché la coscia di pollo possa rimanere intera. I fratelli si devono percuotere. Debbono poter essere fisici (soprattutto se maschi) e debbono poter reagire senza uccidersi, ma confrontandosi. Se usassi tutto un modo costruito per comunicare coi figli, in modo tale da sviluppare la già citata empatia, la resilienza, la tolleranza e tutti i buoni sentimenti positivi, farei la fine della Regina di Molto Molto Lontano che mormora «Che belle le cene in famiglia» mentre è in atto, a tavola, l’ennesima guerra punica.
I bambini debbono confrontarsi: è importante non si squartino, ma devono poter litigare bene. La rabbia è un sentimento sano che non va placato (come vorrebbe il galateo), ma non va neppure sviata in costruzioni linguistiche posticce. Oltretutto se ci sono cinque persone (la Figlia G la annovero tra gli adulti che già provano a intervenire in modo tale da mettere pace ed essere neutrali) sotto un’età per la quale la frase  significa la sopravvivenza, beh insomma, non dico che sbuca il Neanderthal che è insito nel sistema nervoso rettiliano di ognuno, ma è comprensibile il fatto che ci sia chi prova ad atterrare la sorella con uno stratagemma, conquistando il succulento cibo.
Tra adulti poi, la Comunicazione Non Violenta, mi fa paura. Ho conosciuto persone che la mettono in pratica e debbo ammettere che mi sono trovata non solo a pensare di essere apertamente presa per i fondelli, ma che la già citata modalità di comunicare neanderthaliana fosse un modo un po’ burbero, magari, ma del tutto più realista di intrecciare relazioni di comunicazione. Personalmente io, lo ripeto, tra adulti, preferisco un normale galateo fatto delle “paroline magiche” (quelle che piacciono moltissimo alle maestre di scuola) e di relazioni sincere e serene. Non credo al fatto che una persona possa avere più di due/tre amicizie importanti con le quali essere trasparenti e reali, e penso basti un po’ di capacità di relazionarsi direttamente affermando il proprio punto di vista, magari eliminando quel modo da social network che fa dell’essere umano realmente una specie di individuo individualista e arcigno, possa bastare. Ci aggiungerei, così, per completezza, che le 14 opere di Misericordia (7 di Misericordia corporale e 7 di Misericordia spirituale) ci dovrebbero illuminare la via, con semplicità estrema: sono fattibilissime ed estremamente semplici.
Sul “Metodo Gordon” non ho molto da dire: anche qui per esperienza diretta ho conosciuto psicologhe formatrici di tale modalità di relazione (soprattutto tra adulto e bambino) e non nego che possa essere interessante e fornire spunti, tuttavia costoro poi sono le prime che per portare avanti le loro ideologie, non ne usufruiscono per nulla, anzi, intervengono spesso – ovviamente sui social network – in modo primitivo e aggressivo contro chi mostra idee differenti. Quindi preferisco chi è autentico, magari usa modalità semplici, chiare e quasi quasi fredde, ma è autentico (ripeto: la buona educazione è doverosa).
Affermato questo (lunghissimo pensiero) io alzo le braccia.
Di fronte a chi, specialmente sui social network, dipinge la propria vita familiare mostrando la bravura nel far fare lavoretti artistici ai figli (in casa mia pongo, acquerelli, tempere e pastelli a cera, NON entrano neppure in fotografia); l’assoluta armonia nel far fare lezioni diverse da figlio a figlio (magari di età tutte differenti) mentre si prepara la bouillabaisse insegnando la perfetta pronuncia in lingua francese; la meravigliosa capacità di panificare con un mix di grani antichi e semi di papavero, duplicando il lievito madre con assoluta perfezione mentre ogni figlio ripete a menadito, in ordine di comparsa, la lezione su Etruschi, il tema sui Longobardi, la Filosofia Teoretica del periodo tardo ottocentesco e valutando lo strepitoso disegno con pittura a dita del quattrenne che comunque è pulitissimo; la educativa lettura di un testo biblico mentre si lucida il parquet che è meravigliosamente già lucido; bene, di fronte a tali situazioni io alzo le braccia.
Io sono una madre che urla, verso le 18,30 di ogni giorno, che chi non si lava non verrà nutrito.
Che la mattina scolla dai cartoni animati i figli staccando la spina dell’apparecchio e dicendo, per la quinta volta, che in un quarto d’ora bisogna rifare i letti, vestirsi e riordinare la stanza per poi, a turno, fare i compiti assegnati. Io sono la madre che alla domanda «Cosa si fa di pranzo?» non solo prova l’insano istinto di farcire del pane un po’ secco con tre foglie d’insalata e due fette di prosciutto minacciando di far mangiare la prole in giardino anche sotto la pioggia, ma è tentata pure di rispondere che il pranzo non c’è perché la mamma è ancora in camicia da notte per cui la risposta sarebbe «Nulla!!». Sono la madre che tra la parola “METTETE” e la parola “A POSTO”, ci pianta un urlo che atterrerebbe un Tirannosauro Rex che avrebbe l’istinto di scodinzolare e mettersi a cuccia.

Ecco sì, lo ammetto. Io sto mantenendo il sorriso, cercando l’aspetto positivo di una reclusione forzata dal Coronavirus, provando a rimediare alla mia lacunosissima pazienza, tentando di tenere il morale alto, essere foriera di gioia e spensieratezza, ma sono realmente dannatamente abbondantemente più orco di Shrek (i rutti, però, non mi riescono bene come a Fiona).

Teniamo duro. Poi impareremo a comunicare con eleganza e pedagogica risolutezza.
Poi.

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